lunedì 23 marzo 2009

Ten Years After - Ssssh (1969)

I Ten Years After sono un altro gruppo minore della scena progressiva britannica, anche se durano per quasi dieci anni, a differenza di tante altre meteore, e sono autori di un buon prog a tinte nere che si fa più hard col passare degli anni. Nascono nel 1966 per mano del fondatore chitarrista e cantante Alvin Lee, a cui si uniscono il bassista Leo Lyons, il tastierista Chick Churchill ed il batterista Ric Lee. Inizialmente, come detto, attingono parecchio dalla musica nera, blues e jazz soprattutto, con Alvin che mostra tutto il proprio talento virtuosistico, a volte anche dilungandosi troppo, e nel 1967 pubblicano il primo omonimo album che riscuote un discreto successo, anche se la band si mette in mostra soprattutto in ambito live, suonando in tournee in America addirittura con Jimi Hendrix e Janis Joplin. Nel 1968 pubblicano il secondo album Undead, ancora molto simile al primo, mentre nel 1969 è la volta di Stonedhenge, album di transizione che presenta un'inclinazione molto più progressiva rispetto ai precedenti lavori. L'era progressiva stava per esplodere ed i quattro decidono di accantonare la matrice jazz/blues per abbracciare un genere più vario, traendo ispirazione dal rock'n'roll e dallo space rock che i Pink Floyd avevano appena cominciato a diffondere. Quello stesso anno pubblicano Ssssh, album in cui lo stile viene indurito virando verso sonorità più hard, senza trascurare episodi più pop, stile Beatles per intenderci. A conti fatti risulta l'album meglio riuscito, almeno secondo il mio parere, composto da canzoni aggressive giocate sui duetti chitarra-basso, e questo mi piace un sacco, e ballate romantiche per chitarra acustica, la tastiera rimane sovente in disparte limitandosi ad accompagnare, mentre la batteria è ben udibile seppur non mostri virtuosismi particolari. Non vi sono tracce che spiccano particolarmente, l'intero album scorre via liscio e piacevole, si potrebbero segnalare la prima traccia, Bad scene, un hard blues rapidissimo giocato sull'intreccio chitarra-basso e il piano ad accompagnare, con un bel refrain, ideale per aprire un album; la terza traccia Stoned woman, la mia preferita, con uno schema che non cambia: ancora hard blues potente e melodia orecchiabile; la ballata I don’t know that you don’t know my name, molto romantica, e l'ultima I woke up this morning. Dopo Ssssh il gruppo ammorbidisce lo stile preferendo una direzione più commerciale e remunerativa e, dopo la pubblicazione di un'altra manciata di album abbastanza trascurabili, si scioglie nel '74.

giovedì 5 marzo 2009

Angra - Holy Land (1996)

Secondo album per i brasiliani Angra, ancora più bello dell'album di esordio e punto più alto per quanto riguarda i loro lavori. In un perfetto mix di progressive sinfonico, power metal e folk sudamericano, Holy Land contiene sfuriate metal al fulmicotone, delicatissime ballate acustiche, assoli di chitarra, cambi improvvisi di ritmo, percussioni e vocalizzi straacutissimi. Fuori discussione il livello tecnico dei musicisti (gli stessi dell'esordio), dal punto di vista melodico e compositivo risulta essere uno degli album migliori nell'ambito prog metal, piacevole, trascinante, suggestivo, sperimentale, coinvolgente dal primo all'ultimo secondo, non conosce momenti di stanca, anzi, ciascuna canzone è un pezzo di bravura da cogliere in ogni particolare. Il lavoro è un concept basato sulle conquiste, quindi sugli efferati crimini compiuti, dagli europei in Brasile, il Brasile è infatti la terra sacra del titolo, anche se ciascun pezzo è una traccia a se stante. Si comincia con Crossing, breve intro che serve solo per aprire Nothing to say, canzone che definire stupenda non rende sufficientemente l'idea. Prog metal di altissima caratura, arrangiamenti orchestrali curati, ritornello orecchiabile: questi gli ingredienti per un pezzo di apertura che sconvolge. Dopodiché è la volta di una malinconica (come suggerisce il titolo) ballata: Silence and distance comincia con Andre che canta accompagnato dal piano, suonato da lui stesso, poi cresce e si indurisce con le chitarre e gli arrangiamenti pomposi, sfocia in un ritornello stupendo e si chiude come aveva aperto. La quarta traccia è una delle più belle canzoni mai composte, non solo in ambito metal o progressivo: Carolina IV è una breve suite di 10 minuti e mezzo che mostra tutti i generi che il gruppo carioca è in grado di abbracciare: percussioni folk, prog rock, cavalcate speed, pianoforte, tappeti di doppia cassa; pezzo indescrivibile, coinvolgente e anche abbastanza easy listening. Si prosegue con la title track e qui si possono sprecare infinite parole, ma dirò solo che è probabilmente la miglior canzone mai scritta dal gruppo brasiliano; delicata, sognante, maestosa, tribale e mai aggressiva. La sesta traccia è The shaman, episodio che più si avvicina al pop per la semplicità della struttura, altra canzone molto bella e folkloristica. La successiva è Make believe, più riflessiva e complicata, seppur sempre orecchiabile e melodica. Fin'ora le canzoni non si sono mai allontanate troppo dal piglio prog del disco, ma con Z.I.T.O. si giunge in terreni metallici molto più spinti; pezzo rapido, aggressivo ed orecchiabile, ai metallari piacerà moltissimo. Si arriva così alla seconda ed ultima ballata del disco: Deep blue, trascinata dal pianoforte e dalla chitarra, incute un senso di pace e serenità, lirica e suggestiva al massimo. Infine chiude questo magnifico album Lullaby for Lucifer, probabilmente la traccia meno interessante. Holy Land è la summa della produzione Angra, il successivo Fireworks è nettamente sottotono e i seguenti non sono neanche da prendere in considerazione per l'assenza di 3/5 della band orginale. Album assolutamente da ascoltare per tutti gli amanti della buona musica.

lunedì 2 marzo 2009

Banco del Mutuo Soccorso - Io sono nato libero (1973)

Io sono nato libero è il terzo album del Banco e quello che li consacra definitivamente come uno dei gruppi di punta del prog italiano, è probabilmente il loro album migliore e punto di non ritorno della loro produzione, infatti non riusciranno mai più a toccare vette di classe così elevate. La formazione è la stessa dell'esordio ad eccezione del chitarrista Rodolfo Maltese che ha sostituito Todaro, ma ciascun componente è molto cresciuto nel frattempo, la line-up ha trovato maturità ed intesa, soprattutto il più giovane dei fratelli Nocenzi, Gianni, che qui debutta come compositore, mentre Vittorio ha preso piena padronanza del sintetizzatore. Il lavoro è composto da una lunga suite sulla prima facciata e quattro tracce più brevi sulla seconda, ed è ricco di contenuti politico-sociali: la suite, intitolata Canto nomade per un prigioniero politico, è dedicata al golpe avvenuto in Cile quell'anno e descrive la sofferenza del condannato a morte; la terza traccia La città sottile parla dell'alienazione indotta sull'uomo dalle grandi città, mentre la quarta Dopo... niente è più lo stesso torna sul tema della guerra. Canto nomade comincia in sordina con la bellissima voce di Di Giacomo su un tappeto di pianoforte, placida e tranquilla, ma prende via via vivacità e nella sua interezza risulta un calderone di suoni nuovi, improvvisazioni, virtuosismi e fughe: c'è la psichedelia delle tastiere, che dominano per la maggior parte del brano, percussioni tribali o distorte, chitarra acustica a mo' di flamenco e chitarra distorta, su tutto la possente voce del cantante. Traccia bellissima, da ascoltare attentamente, da gustare in ogni sua variazione. La seconda canzone è la più famosa del gruppo e la più orecchiabile: Non mi rompete è una pop song raffinatissima che cela un significato profondo: il protagonista non vuole essere svegliato per non dover affrontare la sua terribile realtà ("non mi svegliate, ve ne prego, ma lasciate che io dorma questo sonno, c'è ancora tempo per il giorno, quando gli occhi si imbevono di pianto"). A parte ciò, il motivo è stupendo, pieno di grazia e contagioso. La città sottile, scritta interamente da Vittorio, è la traccia più cupa e tetra del disco: accordi agghiaccianti di pianoforte introducono il tema, che si sviluppa su un ritmo irregolare e di difficile esecuzione, mentre Francesco canta di un incubo metropolitano con toni estremamente ironici. Avanguardia, sperimentazione, tendenze oniriche; traccia complicata che necessita di qualche ascolto per essere apprezzata, ma ne val la pena. La quarta traccia racconta della disperazione di un soldato che torna dalla guerra alla vista della sua città ridotta in macerie e soprattutto lacerato da ferite emotive post-belliche; gran lavoro dei due tastieristi per una canzone che commuove, con liriche di netta condanna della guerra ("lingue gonfie pance piene non parlatemi di libertà, voi chiamate giusta guerra ciò che io stramaledico"). Infine chiude il disco Traccia II, speculare a Traccia sul primo album: una cavalcata barocca neoclassicheggiante per pianoforte ma ancora più bella nella sua brevità. Un album perfetto, che regge tranquillamente il paragone con i capolavori del prog inglese, impeccabile dal punto di vista lirico e compositivo.