giovedì 19 novembre 2020

Il grande scandalo europeo dei rifugiati

Le prove ottenute dal Guardian denunciano un attacco coordinato e illegale dell'UE ai diritti delle persone disperate che cercano di attraversare il Mediterraneo.

di Daniel Howden, Apostolis Fotiadis e Zach Campbell

Al calar della notte, il 26 marzo 2019, due piccole imbarcazioni si sono dirette a nord attraverso il Mediterraneo. Le imbarcazioni in gomma erano fragili; sarebbe quasi impossibile per coloro a bordo arrivare in Europa senza aiuto. Da nord si è avvicinato un velivolo bimotore della forza navale dell'Unione Europea. Da sud stava arrivando la guardia costiera del paese da cui erano appena fuggiti, la Libia.
L'aereo è arrivato per primo ma non ci sarebbero stati soccorsi dall'Europa. Invece il velivolo, chiamato Seagull 75, ha trasmesso via radio ai libici dicendo loro dove trovare le barche. Ma gli aspiranti intercettatori libici avrebbero bisogno di qualcosa di più delle semplici coordinate. "Va bene signore, il mio radar non è buono, non è buono, se rimani [sopra la barca] ti seguirò", ha detto la guardia costiera, secondo le registrazioni della radio marina VHF rilevata da una nave vicina.
Seagull 75 volteggiava in cerchio. L'equipaggio di volo faceva parte dell'operazione Sophia, una missione navale dell'UE che pattuglia il Mediterraneo centro-meridionale dal 2015. Dopo aver partecipato a migliaia di salvataggi nei suoi primi quattro anni, Sophia ha ritirato le sue navi marittime dal marzo 2019, lasciando solo gli aerei in zona di salvataggio. È diventata nota come la missione navale senza navi. 
"Possiamo stare in questa postazione per circa altri cinque minuti", ha detto l'equipaggio del Seagull 75 ai libici. "Andremo sopra la barca, il gommone, e accenderemo le luci  di atterraggio." Il volo Sophia e la nave della guardia costiera libica si cercavano nel buio. "Non abbiamo la vostra visuale, cercate la luce", ha detto l'equipaggio dell'aereo. I libici hanno chiesto maggiori informazioni. "Attendete, sto solo aggiornando la vostra posizione.", ha risposto l'equipaggio del velivolo.
"Gira a sinistra di circa 10 gradi. È a circa tre miglia nautiche dalla vostra posizione", ha risposto l'operazione Sophia dopo un minuto. L'aereo era senza carburante e stava per tornare alla base. "Guardia costiera nazionale libica, ti contatteremo tramite FHQ, passo", ha detto l'equipaggio del velivolo, riferendosi alla base tattica da cui è gestita l'operazione Sophia.
La confusione in mare quella notte non è stata un incidente isolato, ma un'illustrazione delle meticolose lungaggini che l'Europa ha creato per garantire che i migranti non raggiungessero il continente. Mentre il livello di violenza al confine della Grecia con la Turchia ha scioccato molti europei, la ritirata dell'Europa dai diritti dei rifugiati non è iniziata la scorsa settimana. La decisione della Grecia di sigillare i suoi confini e negare l'accesso all'asilo è solo l'escalation più visibile di un attacco al diritto delle persone di chiedere protezione.
Le basi per questo sono state gettate nel Mediterraneo centrale, dove l'UE e l'Italia hanno creato una combinazione di deleghe per fare ciò che non potevano fare da sole senza violare apertamente le leggi internazionali: intercettare i migranti indesiderati e rimandarli in Libia.
La strategia si è basata sul mantenimento della negabilità della responsabilità per le operazioni della guardia costiera libica. Ma la connivenza rivelata nelle registrazioni audio è supportata da lettere inedite tra ufficiali di alto livello dell'UE, confermate da fonti interne e messe a nudo nelle email della guardia costiera libica, tutte ottenute dal Guardian. Prese insieme, queste prove minacciano di svelare una cospirazione nel Mediterraneo che infrange il diritto internazionale in nome del controllo delle migrazioni.
Il Mediterraneo è il teatro in cui le tensioni tra le idee europee sui diritti umani combattono con l'ansia dei politici continentali per quanto concerne la migrazione africana. Fino al 2009 la Libia era un paese di rimpatrio "sicuro" perché paesi come l'Italia dicevano che lo era. Le navi italiane avrebbero intercettato i migranti e li avrebbero persuasi a scendere dalle loro barche con promesse di passaggio in Italia, per poi metterli in manette e portarli a Tripoli.
L'Italia ha rispedito in Libia quasi 900 persone nel 2009. Tra i rimpatriati c'erano 11 eritrei e somali che hanno presentato reclamo alla Corte europea per i diritti umani. La sentenza del tribunale nel 2012 ha affermato che l'Italia era colpevole di respingimento e aveva violato il diritto degli uomini di chiedere asilo e di non essere rimpatriati in un porto pericoloso. Nel respingere le argomentazioni dell'Italia, uno dei giudici ha sottolineato che "i rifugiati hanno il diritto di avere diritti".
Questa sentenza, chiamata sentenza Hirsi in onore di uno dei rimpatriati, significa che qualsiasi operazione di respingimento sarebbe vulnerabile al controllo legale internazionale se si potesse dimostrare che uno Stato dell'UE controlla e dirige queste operazioni. L'Europa doveva trovare in Libia alleati in grado di intercettare i migranti in alto mare senza mostrare una evidente regia da parte degli europei.
Il progetto di costruire una forza congiunta è decollato nell'estate del 2017. A quel tempo la Libia, nel mezzo di una guerra civile, non aveva una guardia costiera centralizzata e non aveva la capacità di gestire la propria area di ricerca e soccorso. Fin dall'inizio si è trattato di un progetto comune tra Roma e Bruxelles: l'Italia ha fornito navi mentre l'UE ha addestrato e pagato la nuova guardia costiera, spesso reclutando tra milizie e contrabbandieri.
Per rafforzare la legittimità della nuova guardia costiera era necessario presentare documenti all'organizzazione marittima internazionale in cui si dichiarava che la Libia ora gestiva la propria zona di ricerca e salvataggio. I documenti del tribunale di un caso a Catania, in Sicilia, avrebbero successivamente dimostrato che uno dei primi numeri di telefono elencati per la guardia costiera era un numero italiano.
Ma il denaro e le materie prime europee non sarebbero sufficienti per creare una forza di intercettazione efficace. Gli ex miliziani e contrabbandieri che ora indossavano l'uniforme della guardia costiera si sono dati da fare per ridurre gli incroci. Secondo documenti interni trapelati dall'operazione Sophia del 2018, dopo più di un anno di addestramento e sostegno finanziario la guardia costiera libica non era ancora in grado di controllare la propria area di ricerca e soccorso. Per fermare più traversate verso l'Europa avrebbero avuto bisogno di ancora più aiuto.
Dal 2017 l'UE ha iniziato a estendere i voli di sorveglianza sulla zona. Due anni dopo, i voli dell'agenzia di frontiera dell'UE chiamata Frontex hanno quasi raddoppiato le dimensioni della missione aerea dell'UE. Secondo la legge del mare, i suoi piloti erano tenuti a contattare qualsiasi nave fosse nella posizione migliore per assistere le barche in pericolo. Ma quando i libici hanno iniziato ad affermare la loro presenza nel Mediterraneo, i voli europei ed i loro coordinatori hanno iniziato a dare la preferenza alle navi che avrebbero portato coloro che hanno salvato verso sud, nonostante il fatto che i tribunali europei e le agenzie per i rifugiati e le migrazioni delle Nazioni Unite siano tutti d'accordo che la Libia non è una nazione sicura.
Potenziali conseguenze legali sono ora all'orizzonte. Ci sono quattro denunce di fronte a tribunali internazionali e due di fronte a tribunali italiani, che accusano l'Italia, l'UE o entrambi di finanziare e dirigere la guardia costiera libica.
"L'Italia ha aggirato Hirsi con una delegazione artificiale al potere libico, ma la sentenza [di un tribunale internazionale] dimostrerebbe che non possono usarlo per eludere la responsabilità", ha detto Itamar Mann, un avvocato israeliano che sta guidando gli sforzi di contenzioso contro l'UE e l'Italia.
La più recente di queste è una denuncia alla corte dei conti europea, il garante finanziario dell'UE. La denuncia accusa l'UE di aver infranto le proprie leggi incanalando 90 milioni di euro destinati alla riduzione della povertà alla guardia costiera libica.
Mann sostiene che mentre i libici stanno effettuando le intercettazioni, sullo sfondo è l'UE a muovere i fili. "L'Ue usa l'Italia nello stesso modo in cui l'Italia usa la Libia, per sottrarsi alle responsabilità. Il principale colpevole è a Bruxelles".
Quando il Seagull 75 ha lasciato la scena del salvataggio lo scorso marzo, la guardia costiera libica ha ricontattato via radio l'operazione Sophia per confermare le coordinate. "Tre quattro zero tre nord, zero uno quattro tre uno", ha detto la guardia costiera. "È corretto", ha risposto l'equipaggio del Seagull 75. I libici stavano inseguendo le barche dei migranti fino all'estremo nord della zona di ricerca e salvataggio della Libia.
La nave della guardia costiera non riusciva ancora a trovare il secondo gommone. 
La seconda barca era seguita da un altro aereo Sophia, un aereo spagnolo chiamato Cotos, ma anch'esso stava esaurendo il carburante. Stava diventando sempre più chiaro che solo una delle barche sarebbe stata salvata quella notte.
Pochi minuti dopo un altro elicottero europeo ha stabilito un contatto radio. La risposta libica è arrivata, veloce e confusa. "Guardia costiera nazionale libica, guardia costiera nazionale libica, puoi parlare lentamente", ha detto l'equipaggio dell'elicottero. "Si vede il gommone?"
I libici hanno trovato il primo gommone e hanno riportato in Libia tutti quelli a bordo. Il volo spagnolo ha seguito la seconda barca migrante fino a quando non ha esaurito il carburante ed è partito. I funzionari dell'UE avrebbero successivamente affermato che quelli a bordo della seconda barca erano stati salvati da una petroliera privata. Tuttavia, i testimoni che erano a bordo di quella petroliera affermano che non è avvenuto alcun salvataggio. Le registrazioni radio VHF di quella notte confermano questo racconto.
Le zone di ricerca e soccorso dell'IMO non sono state progettate per escludere potenziali soccorritori. Ma il salvataggio comporta la responsabilità legale di sbarcare in un luogo sicuro. Dopo il 2012, con la Libia spogliata del suo status di porto sicuro e l'aumento dei costi politici per il salvataggio dei migranti, i leader europei hanno dovuto trovare un altro modo per controllare il Mediterraneo.
All'inizio del 2019 presso la sede dell'UE a Bruxelles e presso la Frontex, l'agenzia europea della guardia costiera e di frontiera, gli alti funzionari erano consapevoli che l'entità del loro coinvolgimento con i libici rischiava di renderli legalmente responsabili della sorte dei migranti rimpatriati. Un mese prima dell'incidente del Seagull 75, Fabrice Leggeri, il capo della Frontex, ha scritto a Paraskevi Michou, la funzionaria per l'immigrazione più in alto nell'UE, delineando il problema. "Scambi diretti di informazioni operative con il MRCC [Centro di coordinamento del soccorso marittimo] della Libia sui casi di ricerca e salvataggio possono innescare interventi della guardia costiera libica", ha scritto Leggeri. "Lo sviluppo di una guardia costiera libica è finanziato come sapete dall'Unione Europea. Tuttavia, la commissione e le istituzioni generali possono affrontare questioni di natura politica come conseguenza degli scambi di informazioni operative relativi alla SAR".
In gergo ufficioso, il più alto funzionario di frontiera europeo sembrava chiedere al funzionario europeo per l'immigrazione se stessero superando il limite.
La risposta di Michou un mese dopo cercò di rassicurarlo che, legalmente, non erano perseguibili. Tuttavia, ha osservato: "[Molti] dei recenti avvistamenti di migranti nella SRR libica [zona di salvataggio] sono stati forniti da mezzi aerei di [Operazione Sophia] e sono stati notificati direttamente al RCC libico responsabile della propria regione".
In altre parole, stava diventando evidente che le risorse aeree dell'UE - costate più di 35 milioni di euro nel 2019 solo per gli aerei per la Frontex - erano diventate gli occhi e le orecchie di una entità di intercettazione libica.
In privato, alcuni funzionari delle agenzie europee più direttamente coinvolte erano a disagio con il livello di coinvolgimento. Un funzionario di frontiera dell'UE, che ha chiesto di non essere identificato, ha detto al Guardian che non c'era differenza "tra il rimpatrio di qualcuno in un paese pericoloso o il pagamento di qualcun altro per portarcelo".
Nello stesso periodo in cui la guardia costiera libica è stata costituita operativamente e nello stesso periodo in cui le è stata data un'apparenza di legittimità, i battelli di salvataggio privati gestiti da enti di beneficenza europei hanno dovuto subire una corposa campagna di vessazioni con la chiusura dei porti, gli arresti e il sequestro di navi.
"La guardia costiera libica non è in grado di localizzare e seguire da sola le barche dei migranti. Per poter effettuare le intercettazioni, devono essere aiutati dalla sorveglianza aerea”, ha affermato Tamino Böhm, capo missione della ONG tedesca Sea Watch. "Quasi nessuna intercettazione efficace potrebbe avvenire senza una forza aerea dell'UE che li assista".
Böhm, la cui ONG fa volare il proprio piccolo aereo di sorveglianza negli stessi cieli di Sophia, elenca caso dopo caso in cui i voli dell'UE hanno trasmesso dati su imbarcazioni in pericolo alla guardia costiera libica e alle navi private dirette in Libia. Rileva che le navi delle ONG e le navi europee spesso non sono state invitate a soccorrere, una possibile violazione del diritto marittimo internazionale.
"Gli attori europei non sono solo complici ma direttamente responsabili dei respingimenti in Libia", ha aggiunto Böhm.
L'inviato speciale dell'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati nel Mediterraneo centrale, Vincent Cochetel, ha detto che nessuno nella comunità internazionale poteva fingere di non capire quanto fosse diventata pericolosa la Libia.
In queste circostanze, ha detto, "nessuna risorsa di un paese terzo - navale, aereo o di intelligence - dovrebbe essere utilizzata per imporre il ritorno dalle acque internazionali alla Libia".
Il principale collegamento tra sorveglianza aerea europea ed intercettazioni libiche in mare resta il centro di coordinamento dei soccorsi a Roma. Secondo due professori legali tedeschi, Anuscheh Farahat e Nora Markard, questo rende l'Italia responsabile di atti illeciti a livello internazionale, "vale a dire laddove viola i suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale del mare per assicurarsi che un'operazione di salvataggio porti a una consegna in un luogo di sicurezza."
Mario Giro è stato per due anni viceministro degli esteri italiano durante la fase di elaborazione della strategia a sostegno della guardia costiera libica. Giro ha detto di credere che i leader italiani ed europei, ed in particolare l'allora ministro degli interni italiano, Marco Minitti, erano così concentrati sull'arresto del flusso di persone dalla Libia che hanno preso scorciatoie importanti. La volontà italiana ed europea di trattare direttamente con miliziani e trafficanti è stata "un errore, punto e basta", ha detto Giro.
"A quel tempo era molto chiaro che tutti in Italia e in Europa, a destra e a sinistra, erano ossessionati dalla questione dei migranti. E tutti volevano una soluzione rapida e immediata nel nome del tentativo di controllare l'opinione pubblica".
Finora l'UE e l'Italia hanno aggirato il limite tra il finanziamento e il sostegno della guardia costiera libica e l'assunzione del controllo e quindi della responsabilità delle sue operazioni. Anche quando la maschera è caduta, come è avvenuto quando il numero di telefono indicato per il nuovo centro di soccorso libico è stato elencato come un numero italiano, viene mantenuta la negazione della responsabilità ultima.
"Il nostro personale non è incorporato a bordo delle risorse della guardia costiera libica e il personale di Eunavfor Med [European Naval Force Mediterranean] non fa parte del processo decisionale della guardia costiera libica e della marina", ha affermato Peter Stano, portavoce del servizio europeo per l'azione esterna, corpo diplomatico dell'UE. "Né Eunavfor Med ha il diritto di esercitare alcun controllo e autorità sulla guardia costiera libica e sulle unità o sul personale della marina".
Stano ha negato qualsiasi coordinamento diretto della guardia costiera libica. "Le risorse aeree [dell'UE] non esercitano alcun coordinamento delle navi libiche durante le operazioni di salvataggio. Non esiste un programma di perlustrazione", ha detto.
Tuttavia, un'email inviata da un commodoro della guardia costiera libica ad Alarm Phone, un gruppo di monitoraggio volontario, nell'agosto 2019, ottenuta dal Guardian, afferma che le risorse aeree dell'UE passano loro direttamente le informazioni. "Si informa che ieri Fezzan ha condotto 2 eventi S.A.R., due gommoni in pericolo di affondamento con circa 30 e 50 persone a bordo, a nord-ovest di Tripoli (circa 70 NM), correlati a segnalazioni di Eunavfor Med air asset D0102 e D0105", diceva l'email.
Nonostante le smentite, una resa dei conti appare più vicina poiché una serie di azioni legali internazionali stanno esaminando ogni aspetto di questa cooperazione. Ciò che emerge, affermano gli avvocati, è una cospirazione per aggirare il diritto internazionale ed eludere la responsabilità di bloccare efficacemente il Mediterraneo.
Un alto funzionario dell'UE vicino alla politica libica dell'epoca ha descritto la strategia mediterranea come una "bomba a orologeria politica".
"L'UE ha assunto un grave rischio reputazionale", ha detto il funzionario. "Mettiamo il nostro destino nelle mani di truffatori, le cui conseguenze stanno arrivando".
Alla fine del 2017, i responsabili delle decisioni a Bruxelles sono stati divisi tra un gruppo di intransigenti che volevano una riduzione delle traversate via mare a tutti i costi e che il controllo della migrazione in Europa fosse dislocato in Libia, e altri che sostenevano che Sophia e le navi delle ONG avrebbero dovuto essere autorizzate a continuare le operazioni di soccorso. I sostenitori della linea dura hanno vinto. Ora, più di due anni dopo, la presenza di navi di soccorso europee nel Mediterraneo centrale è minima. Alla fine del prossimo anno, la Frontex, che ha iniziato ad assumere un ruolo maggiore nelle operazioni in Libia, diventerà la più grande agenzia dell'UE per bilancio.
A febbraio i ministri degli esteri dell'UE hanno chiesto il rinnovo di Sophia. Il destino di coloro che cercano di fuggire dalla Libia in barca rischia di rispecchiare quello dei migranti sorpresi dalle luci del Seagull 75 nel marzo dello scorso anno. Gli occupanti di una barca sono stati intercettati con successo dalla guardia costiera libica. Quello che è successo a quelli su un'altra barca è oggetto di dibattito, ma le prove suggeriscono che siano andati dispersi, presumibilmente morti.

Articolo originale.

sabato 5 settembre 2020

I nuovi privilegiati - Matthew Stewart, The Atlantic

Da bambino, per una settimana all’anno, facevo parte dell’aristocrazia statunitense. Nel periodo di Natale, o più spesso il 4 luglio (giorno dell’indipendenza degli Stati Uniti), la mia famiglia si trasferiva in uno dei circoli sportivi dei miei nonni a Chicago, a Palm Beach (in Florida) o ad Asheville (in North Carolina). I buffet della colazione erano magnifici e mio nonno era un padrone di casa gioviale, sempre pronto a raccontare storie di famiglia e a darci bonarie istruzioni su come comportarsi nel circolo.
Quando avevo undici o dodici anni, sentendolo parlare tra nuvole di fumo di sigaro, capii che per le nostre settimane nel lusso dovevamo ringraziare il mio bisnonno, il colonnello Robert W. Stewart. Il colonnello aveva combattuto per Theodore Roosevelt nella guerra ispano-americana e aveva fatto fortuna negli anni venti come presidente della compagnia petrolifera Standard Oil in Indiana. Mi fu anche fatto capire che, per motivi riconducibili a qualche antica e incomprensibile disputa, i Rockefeller erano i nostri nemici giurati.
Solo anni dopo avrei scoperto che le storie sul colonnello e sulle sue lotte contro i titani erano molto lontane dalla verità. Dopo una settimana tornavamo a casa. La mia realtà era la vita tipica della classe media nelle comunità che nascevano intorno alle basi militari negli anni sessanta e settanta. Vivevamo bene, ma mangiavamo pizza da asporto e cereali in scatola. Il nostro massimo momento di gloria fu quando i miei genitori tornarono a casa con un nuovo furgoncino Volskwagen.
Crescendo, lo sfarzo dei rinfreschi patriottici e delle partite di bridge durante le feste cominciò a sembrarmi vagamente ridicolo e perino offensivo, come un compleanno infinito per gente il cui massimo traguardo nella vita era mettersi in mostra. Facevo parte di una nuova generazione che credeva nella meritocrazia e che definiva il merito in modo molto lineare: sostenere esami, prendere ottimi voti, avere un buon curriculum, essere bravi nei giochi da tavolo, vincere le partitelle a basket e, naturalmente, lavorare per pagarsi gli studi. Nel mio caso significava fare lavoretti per i vicini di casa, timbrare il cartellino in un fast food e vincere borse di studio per finire il college e la specializzazione. Avevo ricevuto molti vantaggi alla nascita, ma tra questi non c’era il denaro.
Oggi faccio parte di una nuova aristocrazia, che però si considera ancora un prodotto della meritocrazia. Per tanti versi il mio gruppo – che chiamerò il 9,9 per cento – è da ammirare. Ha rinunciato ai vecchi codici di abbigliamento, crede fermamente nei fatti ed è diventato un po’ più vario dal punto di vista del colore della pelle e dell’appartenenza etnica. Quelli come me, che hanno vaghi ricordi di un’antica casta dominante, sono l’eccezione, non la regola.
Dal punto di vista sociologico ed economico far parte del mio gruppo è una fortuna. E lo è ancora di più per i nostri figli. In termini di salute, relazioni sociali e livello d’istruzione – per non parlare del reddito – ce la passiamo molto meglio di altri gruppi. Ma quando ci guardiamo allo specchio non ci accorgiamo di quanto siamo cambiati e di cosa siamo diventati.
Noi della classe meritocratica abbiamo imparato un vecchio trucco: consolidare la ricchezza e trasmettere i privilegi per via ereditaria ai nostri figli a spese dei figli degli altri. Non siamo semplici spettatori innocenti della concentrazione della ricchezza della nostra epoca. Siamo i principali complici di un processo che sta lentamente soffocando l’economia, destabilizzando la politica statunitense ed erodendo la democrazia. Le nostre illusioni sul merito ci impediscono di riconoscere il problema causato dalla nostra ascesa. Tendiamo a pensare che le vittime del nostro successo siano solo le persone escluse dalla nostra cerchia. Ma la storia dimostra chiaramente che in questa partita è l’intera società a uscire sconfitta.
Fascino discreto
Cominciamo dai soldi, anche se sono solo una parte di ciò che rende speciali i nuovi aristocratici. La storia dell’aumento della disuguaglianza negli Stati Uniti è stata raccontata molte volte, e i suoi protagonisti principali sono noti. I cattivi sono i petrolieri, i pezzi grossi di Wall street, gli imprenditori spietati della Silicon valley e il resto del cosiddetto 1 per cento. Poi ci sono i buoni, il 99 per cento, presentati anche come “il popolo” o “la classe media”. La storia è semplice: una volta eravamo uguali, oggi siamo divisi. In questo racconto c’è una parte di verità, ma sono i personaggi e la trama a essere fondamentalmente sbagliati.
In realtà è stato lo 0,1 per cento della popolazione a beneficiare di più della crescente concentrazione della ricchezza degli ultimi cinquant’anni. Secondo Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, economisti dell’Università della California a Berkeley, nel 2012 le 160mila famiglie che facevano parte di questo gruppo controllavano il 22 per cento della ricchezza statunitense (nel 1963 la loro fetta di torta era del 10 per cento). Quando si parla di gente in grado di comprare le elezioni, si parla dello 0,1 per cento.
Lo 0,1 per cento si è arricchito a spese di quelli che stanno sotto, ma non di tutti. A perdere è stato il 90 per cento più povero: a metà degli anni ottanta questo gruppo aveva in mano il 35 per cento della ricchezza del paese; trent’anni dopo la percentuale è scesa di 12 punti, esattamente la quota di crescita registrata dallo 0,1 per cento.
Tra lo 0,1 per cento più ricco e il 90 per cento più povero c’è un gruppo che se la passa piuttosto bene. Ha conservato la sua fetta di torta (una torta sempre più grande) nel corso dei decenni. E, nel complesso, possiede molta più ricchezza degli altri due gruppi messi insieme. È la nuova aristocrazia. Siamo noi: il 9,9 per cento.
Che tipo di persone siamo, noi del 9,9 per cento? Nella maggioranza dei casi non somigliamo agli esuberanti manipolatori politici dello 0,1 per cento. Siamo ben educati e ben vestiti. Siamo avvocati, medici, dentisti, piccoli banchieri d’affari e professionisti di ogni tipo. Insomma, siamo quelli che la gente invita a cena. Siamo talmente schivi che neghiamo perfino di esistere. Continuiamo a ripetere che apparteniamo alla “classe media”.
Secondo i dati del 2016, per entrare a far parte del 9,9 per cento serve un patrimonio netto di 1,2 milioni di dollari, mentre ci vogliono 2,4 milioni per stare nella mediana del gruppo e dieci milioni per stare nello 0,9 per cento più ricco.
Siamo anche quasi tutti (ma non tutti) bianchi. Secondo un’analisi del Pew research center, i neri rappresentano l’1,9 per cento del decimo superiore delle famiglie in ordine di reddito; gli ispanici sono il 2,4 per cento; tutte le altre minoranze, compresi gli asiatici, compongono l’8,8 per cento. Presi tutti insieme, questi gruppi rappresentano il 35 per cento della popolazione statunitense totale.
Uno degli svantaggi di appartenere al 9,9 per cento è che si sta sempre con il naso all’insù. Guardiamo lo 0,1 per cento sopra di noi con un misto di ammirazione, invidia e riverenza. E così non ci accorgiamo dell’altro grande fenomeno della nostra epoca: abbiamo lasciato il 90 per cento nella polvere, e stiamo disseminando la strada di ostacoli per fare in modo che non ci raggiungano mai.
Immaginate di partire esattamente dalla metà della scala della distribuzione della ricchezza. Che salto dovreste fare per entrare nel 9,9 per cento? Dal punto di vista economico, la misurazione è semplice e la tendenza è inequivocabile. Nel 1963 avreste dovuto moltiplicare la vostra ricchezza per sei per entrare nel gruppo, nel 2016 per 12, e ce l’avreste fatta per il rotto della cuffia. Se un posto in ultima fila non vi bastava e aspiravate al centro del gruppo, dovevate moltiplicarla per 25. Da questo punto di vista, gli anni dieci del nostro secolo somigliano molto agli anni venti del novecento.
Per chi non è bianco è ancora più difficile. L’Institute for policy studies ha calcolato che, mettendo da parte i soldi investiti in “beni durevoli” come i mobili e l’automobile, nel 2013 il patrimonio netto mediano di una famiglia afroamericana era di 1.700 dollari, e di duemila dollari per una famiglia ispanica, contro i 116.800 dollari di una famiglia bianca. Secondo uno studio del 2015, a Boston la ricchezza mediana della famiglia bianca era di 247.500 dollari, contro gli otto dollari di una famiglia nera. Non è un refuso: otto dollari, come due cappuccini da Starbucks. Aggiungete altre 300mila tazze di caffè ed ecco che siete nel 9,9 per cento.
Tutto questo non importa, dirà qualcuno, perché negli Stati Uniti tutti hanno l’opportunità di fare il salto verso la classe più alta: la mobilità sociale giustifica la disuguaglianza. È un ragionamento che non è vero in linea di principio, e che negli Stati Uniti non è vero neanche a livello fattuale. Contrariamente a quello che si pensa, la mobilità economica nella terra delle opportunità è bassa ed è in calo.
Immaginate di trovarvi su una scala socioeconomica con l’estremità di un elastico legata alla caviglia e l’altra al gradino dove sono i vostri genitori. Più l’elastico è resistente, più sarà difficile per voi spostarvi dal piolo di partenza. Se i vostri genitori sono in alto sulla scala, l’elastico vi tirerà su in caso di caduta; se sono in basso, vi trascinerà giù quando cominciate a salire. Gli economisti rappresentano questo concetto con un indicatore che chiamano elasticità intergenerazionale del reddito (intergenerational earnings elasticity, Ige), che misura quanto lo scostamento del reddito di un figlio dalla media può essere attribuito al reddito dei genitori. Un Ige pari a zero significa che non c’è nessuna relazione tra il reddito dei genitori e quello del figlio. Un Ige pari a uno indica che il figlio è destinato a rimanere esattamente dove si trovava alla nascita.
Secondo Miles Corak, professore di economia alla City university of New York, mezzo secolo fa l’Ige negli Stati Uniti era sotto lo 0,3 per cento. Oggi è vicino allo 0,5 per cento, il più alto di quasi tutti i paesi avanzati. Dal punto di vista della mobilità sociale, gli Stati Uniti sono più vicini al Cile e all’Argentina che al Giappone o alla Germania. Una volta scelti i genitori, insomma, il più è fatto.
Quest’analisi dà solo un’idea della società classista che si sta sviluppando negli Stati Uniti. Le persone passano in continuazione da una categoria di reddito all’altra senza necessariamente cambiare classe sociale, e spesso sentono di appartenere a una classe mentre agli occhi degli altri rientrano in un’altra. Ma anche se le statistiche sulla ricchezza offrono un quadro imperfetto di un processo più profondo, riescono a illustrare almeno in parte la straordinaria trasformazione che sta avvenendo nella società statunitense.
Qualche anno fa Alan Krueger, economista ed ex presidente del Council of economic advisers, l’ente che consiglia il presidente degli Stati Uniti sulla politica economica, notò alcuni segnali del processo in corso. La riduzione della mobilità sociale e l’aumento della disuguaglianza, osservò Krueger, sono strettamente collegati. In tutti i paesi l’Ige cresce quando il reddito è 0 distribuito in modo disuguale. È come se le società avessero la tendenza naturale a dividersi in classi sociali e poi a cristallizzarsi.
Krueger chiamò questa tendenza la curva del Grande Gatsby, dal titolo del romanzo di Francis Scott Fitzgerald sulla fine del sogno americano. Il libro è ambientato nel 1922, più o meno negli stessi anni in cui il mio bisnonno stava segretamente sottraendo soldi alla Standard Oil depositandoli presso una società di comodo in Canada. E fu pubblicato nel 1925, proprio mentre venivano fuori le prove che alcuni titoli emessi da quella società erano finiti nelle mani del ministro dell’interno. Mentre Scott Fitzgerald se ne andava in giro a bere nei caffè diParigi, il colonnello Robert W. Stewart sfuggiva al mandato per testimoniare al senato sul suo ruolo in uno scandalo di corruzione legato alle concessioni petrolifere. Oggi ci stiamo avvicinando al picco di disuguaglianza raggiunto dalla generazione del mio bisnonno. Sono sicuro che loro pensavano che sarebbe durato per sempre.
I soldi non comprano il rango sociale, diceva mia nonna. Ma possono servire per assumere un investigatore privato. Mia nonna veniva da una buona famiglia del Kentucky e, come Daisy Buchanan del Grande Gatsby, aveva fatto qualche sfilata da modella. Perciò, quando il suo primogenito annunciò di voler sposare una donna spagnola, non si fece trovare impreparata. Un investigatore la informò che la famiglia della promessa sposa si guadagnava da vivere vendendo giornali per le strade di Barcellona. Nonna ordinò una sospensione totale e immediata delle comunicazioni. La famiglia di mia madre era proprietaria di una cartiera. Quando la coppia ebbe dei figli mia nonna dovette cedere. Decisa a fare la cosa giusta, si attivò affinché la nuova famiglia, all’epoca in missione militare alle Hawaii, fosse iscritta nel social register di New York, il registro pubblico delle famiglie di alto rango.
L’origine di una specie
I sociologi, nel loro linguaggio asciutto, direbbero che mia nonna era un’attenta amministratrice del capitale sociale di famiglia, e non avrebbe mai permesso a una stracciona spagnola di impossessarsene. Anche se questo non sarebbe mai successo, non aveva tutti i torti. Il denaro può essere la misura della ricchezza, ma non è l’unica forma di ricchezza. Famiglia, amici, reti sociali, salute, cultura, istruzione e perfino il posto in cui si vive sono tutte forme di ricchezza. Queste manifestazioni non economiche della ricchezza non sono semplici benefici accessori dell’appartenenza alla nostra aristocrazia. Definiscono chi siamo.

Siamo gente di buona famiglia, godiamo di buona salute, abbiamo frequentato buone scuole, viviamo in ottimi quartieri e abbiamo un buon lavoro. Siamo così distanti da chi se la passa meno bene di noi – sotto tutti i punti di vista – che cominciamo a somigliare a una nuova specie.
Come ai tempi di mia nonna, la nascita della nuova specie comincia con una storia d’amore. O, se preferite, con la selezione sessuale. Il termine tecnico è “accoppiamento assortativo”. A volte l’espressione è usata lasciando intendere che ci troviamo di fronte a un’altra delle meraviglie dell’era di internet. In realtà, la frenesia dell’accoppiamento assortativo deriva da una realtà che era nota già alle eroine dei romanzi di Jane Austen: l’aumento della disuguaglianza riduce il numero dei buoni partiti disponibili, premiando sempre di più chi riesce a fare un buon matrimonio a spese di chi non ci riesce. Secondo uno studio dell’American academy of political and social science, oggi il titolo di studio influisce sulla scelta del partner in percentuali che non si vedevano dagli anni venti del novecento.
È fuorviante pensare che l’accoppiamento assortativo sia simmetrico, cioè che il topo di città sposa il topo di città e il topo di campagna sposa il topo di campagna. La metafora più appropriata sarebbe questa: il topo ricco trova l’amore, mentre il topo povero rimane fregato. A quanto pare chi fatica ad arrivare a fine mese ha meno probabilità di rimanere insieme al proprio partner.
Secondo Robert Putnam, politologo di Harvard, sessant’anni fa solo il 20 per cento dei figli di genitori con al massimo un diploma di scuola superiore viveva in famiglie monoparentali; oggi la percentuale sfiora il 70 per cento. Nelle famiglie dove i genitori hanno frequentato il college, invece, il tasso di monoparentalità è sotto al 10 per cento. Dagli anni settanta la percentuale dei divorzi è scesa notevolmente tra le coppie con un’istruzione universitaria, mentre è aumentata drasticamente tra le coppie con un livello d’istruzione medio-superiore, nonostante il calo dei matrimoni. Secondo uno studio di Raj Chetty, economista a Stanford, il tasso di monoparentalità è l’indicatore più significativo dell’assenza di mobilità sociale in tutte le contee statunitensi.
Questo non vuol dire che le persone sbaglino a cercare un partner adatto con cui formare una bella famiglia. La nostra specie ha sempre cercato la felicità in questo modo e presumibilmente continuerà a farlo. Il problema è che noi del 9,9 per cento ci illudiamo che se le nostre azioni sono singolarmente ineccepibili, allora la somma di quelle azioni farà il bene della società. Anche se prima di iscriverci a giurisprudenza abbiamo studiato Shakespeare, ci sfugge il senso delle possibilità tragiche dell’esistenza. In modo silenzioso e collettivo abbiamo scelto la disuguaglianza, e la disuguaglianza produce esattamente questo: trasforma il matrimonio in un bene di lusso e una famiglia stabile in un privilegio che le élite ricche possono lasciare in eredità ai loro figli.
Questo divario di classe tra famiglie è solo un elemento di un processo che sta creando due forme di vita distinte nella società statunitense. Se osservate la gente in un centro yoga o in una palestra noterete che lo stesso processo sta prendendo forma nei nostri corpi. Nell’Inghilterra dell’ottocento i ricchi erano visibilmente diversi: erano più alti, molto più alti. Secondo lo studio “Pigmei e giganti d’Inghilterra”, i sedicenni maschi delle classi ricche svettavano mediamente di 21,8 centimetri sui loro denutriti compatrioti delle classi inferiori. Oggi negli Stati Uniti si sta creando la stessa situazione in ambiti diversi.
Obesità, diabete, cardiopatie, malattie renali e malattie del fegato sono da due a tre volte più diffuse tra chi ha un reddito familiare sotto i 35mila dollari rispetto a chi ha un reddito sopra i centomila dollari. Nei primi quindici anni del ventunesimo secolo – caso unico nel mondo sviluppato – negli Stati Uniti il tasso di mortalità dei bianchi di mezza età e meno istruiti è aumentato. Ad alimentare questa tendenza è stata la crescita di quelle che gli economisti di Princeton Anne Case e Angus Deaton chiamano le “morti della disperazione”, cioè i suicidi e i decessi legati a problemi di alcol e droga.
I dati sociologici confermano questo divario crescente. Noi fortunati appartenenti al club del 9,9 per cento viviamo in quartieri più sicuri, frequentiamo scuole migliori, facciamo meno chilometri per andare al lavoro, abbiamo un’assistenza sanitaria di qualità e, se le circostanze lo impongono, scontiamo le pene in carceri migliori. E abbiamo anche più amici, il tipo di amici che ci presentano nuovi clienti o mettono a disposizione preziose borse di studio per i nostri rampolli. Ma soprattutto, abbiamo imparato come lasciare tutti questi vantaggi ai nostri eredi.
Negli Stati Uniti di oggi per sapere se un individuo si sposerà, eviterà il divorzio, s’iscriverà all’università, vivrà in un buon quartiere, avrà una rete sociale estesa e godrà di buona salute, basta andare a vedere cosa hanno fatto i suoi genitori.
Stiamo lasciando quelli del 90 per cento con una montagna di debiti e cattive scelte di vita che in qualche modo si ritrovano costretti a fare e che ricadranno sui loro figli. Tendiamo a sottovalutare che negli Stati Uniti essere genitore è più costoso e che diventare madre è più rischioso rispetto a qualsiasi altro paese sviluppato, che le campagne contro la pianificazione familiare e i diritti riproduttivi sono un attacco alle famiglie del 90 per cento più povero, e che le politiche di sicurezza e ordine pubblico alimentano ulteriormente questo divario. Preferiamo interpretare la relativa povertà di queste persone come un vizio: perché non si danno una mossa?
Oggi guardiamo il 90 per cento dall’alto delle nostre superiori virtù come i ricchi inglesi guardavano i poveri dall’alto dei loro centimetri, come se quel divario fosse un prodotto della natura. È così che si comportano gli aristocratici.
Il privilegio dell’istruzione
Mia figlia di 16 anni è seduta su un divano e sta parlando con una sconosciuta dei suoi sogni per il futuro. Siamo qui perché, dice, “tutti i miei amici lo fanno”. Per un momento mi chiedo se, senza volerlo, non abbiamo firmato per una terapia psicanalitica. La donna dall’aria professionale e in abito casual elegante mi lancia uno sguardo appuntito e dice: “È normale essere ansiosi in un momento come questo”. Si sente davvero come una psicoterapeuta. Evidentemente non ha capito che il motivo della mia ansia è l’idea di spendere dodicimila dollari per un “pacchetto base” di servizi di consulenza universitaria che dovrebbero servire proprio a non farmi stare in ansia.
Deciso a ricavare qualcosa da questa seduta di prova, chiedo suggerimenti sulle attività estive. Ce ne andiamo con una dritta su un “tour culturale” di dieci giorni in Francia per studenti del liceo. Sui moduli per le domande d’iscrizione al college è catalogata come “esperienza di arricchimento”. Quando torniamo a casa do un’occhiata. Prezzo dell’arricchimento: undicimila dollari per dieci giorni.
Mi preparo il discorso da fare a mia figlia. Le dirò che si può vivere benissimo anche senza frequentare un’università prestigiosa. “Ti vogliamo bene così come sei. Non siamo come quei genitori chiassosi e ipercompetitivi che attaccano gli adesivi sul lunotto posteriore della macchina per far vedere quando sono bravi. E poi perché dovresti andare a lavorare in una banca d’investimento o fare l’avvocata di una multinazionale?”. Alla fine rinuncio al discorsetto, sapendo benissimo che farebbe immediatamente scattare il rivelatore di cazzate di mamma e papà.
Oggi il colore della pelle dell’élite studentesca degli Stati Uniti è più vario, così come il genere, ma negli ultimi trent’anni l’ossatura economica di questa élite si è calcificata. Nel 1985 il 54 per cento degli studenti dei 250 college più selettivi proveniva da famiglie appartenenti ai tre quarti più bassi della scala di distribuzione della ricchezza. Nel 2010 la percentuale è scesa al 33 per cento. Secondo uno studio del 2017, 38 college d’élite hanno più iscritti provenienti dall’1 per cento più ricco che dal 60 per cento più povero.
William Deresiewicz, ex professore di inglese a Yale, sintetizza efficacemente il quadro nel suo libro Excellent sheep, pubblicato nel 2014: “La nostra nuova meritocrazia, multirazziale e neutra dal punto di vista del genere, ha trovato il modo di diventare ereditaria”.
A questo si aggiunge il fatto che ci sono molti programmi riservati ai ricchi. Come osserva Daniel Golden in The price of admission, il sistema della legacy-admission (la “corsia preferenziale” per i figli di ex alunni, soprattutto se finanziatori degli atenei) premia i candidati che hanno genitori ricchi. Anche la selezione per meriti sportivi – contrariamente a quello che si tende a credere – favorisce i ricchi, i cui figli praticano il lacrosse, lo squash, la scherma e altri sport costosi in cui le scuole private e le scuole pubbliche di élite eccellono.
La fonte principale di tutti gli aiuti per i ricchi, naturalmente, rimane la scuola privata. Solo il 2,2 per cento degli studenti statunitensi si diploma in licei privati laici, ma questo 2,2 per cento forma il 26 per cento degli studenti dell’università di Harvard e il 28 per cento di quelli di Princeton.
I programmi pensati per diversificare la composizione del corpo studentesco sono senz’altro animati da buone intenzioni. Ma in una certa misura sono solo un’estensione di questo sistema di conservazione della ricchezza. Servono, almeno in parte, a far credere ai ricchi che il loro ateneo è aperto a tutti sulla base del merito.
A dire il vero il crollo dei tassi di ammissione nelle università di élite coinvolge anche parecchi figli del 9,9 per cento. Ma non preoccupatevi, giovani del 9,9 per cento: abbiamo creato una nuova schiera di college di élite tutta per voi. Grazie ad amministrazioni particolarmente ambiziose e alla possente macchina delle graduatorie dei migliori college stilata dallo U.S. News & World Report, oggi 50 college sono diventati selettivi come lo era Princeton nel 1980, quando mi iscrissi a quell’ateneo. A quanto pare le università sono convinte che accumulare domande respinte le renda speciali. In realtà significa solo che hanno scelto di usare le loro enormi risorse (che comprendono sovvenzioni statali) per perpetuare il privilegio invece di assolvere alla loro funzione di scolarizzare e istruire.
L’unica cosa che cresce allo stesso ritmo della percentuale di domande respinte nei college più selettivi è il prezzo spropositato delle rette. In rapporto al salario mediano statunitense, dal 1963 al 2013 le rette e le tasse universitarie degli atenei più prestigiosi sono più che triplicate. Aggiungiamo i consulenti scolastici, le lezioni di violino, le scuole private e i soldi da mettere da parte per permettere ai nostri rampolli di salvare i villaggi della Micronesia, e il conto diventa ancora più salato.
I sussidi alle famiglie contribuiscono a ridurre il divario e impediscono al costo medio dell’istruzione universitaria di crescere a ritmi ancora più alti. Ma resta una domanda: perché i ricchi sono così ansiosi di pagare per queste università? La risposta è che ne vale la pena.
Negli Stati Uniti il “premio” di cui beneficiano i giovani adulti laureati rispetto ai non laureati supera il 70 per cento. Rispetto al 1950, il rendimento dell’investimento nell’istruzione è cresciuto del 50 per cento, ed è molto più alto in confronto a tutti gli altri paesi avanzati. Il premio dell’istruzione universitaria in Norvegia e in Danimarca, per esempio, è meno del 20 per cento; in Giappone è sotto il 30 per cento; in Francia e in Germania è intorno al 40 per cento.
Tutto questo senza considerare la differenza abissale tra le “buone” scuole e tutte le altre. Secondo i dati del ministero dell’istruzione statunitense, a distanza di dieci anni dall’iscrizione all’università il decile più alto dei laureati provenienti da tutti gli atenei percepisce un salario mediano di 68mila dollari. Il decile più alto dei laureati nei college d’élite si mette in tasca 220mila dollari (250mila per i laureati di Harvard, il college in cima alla lista) mentre il decile più alto dei trenta college che seguono ne guadagna 157mila. Come è facile intuire, il tasso di accettazione delle domande nelle dieci università più prestigiose è del 9 per cento, contro il 19 per cento delle trenta successive.
Si può tranquillamente ricevere una buona istruzione in una delle numerose scuole che non sono considerate “buone” da un sistema ossessionato dai nomi e dai marchi come quello statunitense. Le scuole “cattive”, però, sono cattive per davvero. A chi commette l’errore di nascere da genitori sbagliati la società statunitense offre una specie di sistema scolastico virtuale. Ci sono strutture che sembrano università ma in realtà non lo sono, e ci sono montagne di debiti che, invece, purtroppo, sono reali. Chi entra in questo ologramma di classe non riceve nessun premio dall’istruzione universitaria e si ritrova in una specie di servitù a contratto.

Una delle storielle che ci raccontiamo è che il premio è il giusto corrispettivo per le conoscenze e le competenze che riceviamo dall’istruzione. Un’altra è che il premio è la giusta ricompensa per le superiori doti intellettive che già possedevamo prima di entrare nel campus. Siamo una “élite cognitiva”, secondo la definizione piena di tatto di alcuni sociologi.
In realtà i laureati guadagnano molto di più di tutti gli altri non perché sono più bravi a fare il loro mestiere, ma perché possono scegliere diversi tipi di mestieri. Più della metà dei laureati delle università della Ivy league, il gruppo degli otto atenei più prestigiosi, segue uno dei quattro percorsi di carriera tipicamente riservati alle persone istruite: finanza, consulenza manageriale, medicina o legge.
Per semplificare, possiamo dire che al mondo ci sono due tipi di mestieri: quelli dove i lavoratori possono influenzare collettivamente la loro retribuzione e quelli dove devono accettare le condizioni imposte. Essere un lavoratore del primo gruppo è meglio. Guarda caso, è il gruppo dei laureati.
Declino sindacale
Perché i medici statunitensi guadagnano il doppio rispetto a quelli degli altri paesi ricchi? Gli Stati Uniti si sono classificati ultimi per cinque anni di seguito nella graduatoria del Commonwealth fund, che misura l’efficienza dei sistemi sanitari nei paesi ad alto reddito, quindi è difficile sostenere che i medici americani siano i più bravi a salvare vite umane.
Dean Baker, economista del Center for economic and policy research, ha una spiegazione più plausibile: “Quando noi economisti – di destra o di sinistra – guardiamo alla professione medica negli Stati Uniti, vediamo qualcosa che somiglia molto a un cartello”. Le organizzazioni dei medici hanno un’enorme influenza nelle decisioni che riguardano il numero dei posti nelle facoltà di medicina e dei tirocinanti negli ospedali, la concessione delle licenze ai medici laureati all’estero e il ruolo dei praticanti infermieri, quindi di fatto sono in grado di limitare la concorrenza che minaccia i loro iscritti. E ovviamente lo fanno.
Gli avvocati (o almeno l’élite della categoria) hanno imparato a fare lo stesso. Anche se la cosiddetta bolla delle scuole di legge si è sgonfiata, gli avvocati statunitensi sono ancora al primo posto nelle graduatorie internazionali dei redditi e guadagnano il doppio dei loro colleghi britannici. Nel 2016 Todd Henderson, professore di diritto all’Università di Chicago, ha dichiarato in un’intervista a Forbes che “l’American bar association, l’associazione degli avvocati e degli studenti di legge, gestisce un cartello approvato dallo stato”.
Per fortuna nessuno crede più alla favola dei pionieri del settore tecnologico che grazie al loro genio innovano e trasformano lo status quo. La realtà è che ci sono cinque aziende enormi – i nomi li sapete – che messe insieme valgono 3.500 miliardi di dollari e rappresentano più del 40 per cento dell’indice Nasdaq. Il resto del settore tecnologico è composto per lo più da entità virtuali che aspettano pazientemente di gettarsi in pasto a uno di questi mostri.
Parliamoci chiaro: si tratta di monopoli con sopra le faccine. Quando si parla di sostanze vischiose come il petrolio gli americani hanno imparato da tempo a fronteggiare le aziende che cercano di fagocitare il mercato. Ma purtroppo ancora non sanno cosa fare con i monopoli che nascono da internet e dalle economie di scala del mercato dell’informazione. Finché non lo capiremo, i profitti resteranno attaccati a chi riesce a stare più vicino al barattolo di miele. Potete stare certi che a questa gente saranno riconosciuti un sacco di meriti.
Ma il principale dispensatore di doni del 9,9 per cento, naturalmente, è il settore dei servizi finanziari. Oggi gli statunitensi trasferiscono un dollaro di pil su dodici al settore finanziario; negli anni cinquanta i banchieri si accontentavano di un dollaro su quaranta. Il gioco è un po’ più sofisticato di un banale scippo, ma la sostanza è emersa chiaramente durante la crisi finanziaria del 2008. Il cittadino si accolla il rischio e i guru della finanza si siedono ai tavoli del casinò: se esce testa vincono loro, se esce croce perdiamo noi. Il sistema finanziario non è un prodotto della natura. È stato studiato nel corso degli anni da generazioni di potenti banchieri per avvantaggiare loro e i loro eredi.
Chi è che non fa parte della partita? Gli operai del settore automobilistico. Le persone che si occupano dei malati. I lavoratori del commercio al dettaglio, i produttori di mobili e chi lavora nella ristorazione. I salari degli operai manifatturieri e dei lavoratori del terziario statunitensi sono nella media delle graduatorie internazionali. Evidentemente l’eccezionalità degli stipendi statunitensi non riguarda i mestieri che non richiedono la laurea.
E cosa succede quando i lavoratori si organizzano? Se a farlo sono le persone istruite e ben referenziate è perché vogliono fare il bene di tutti, assicurare un’alta qualità dei servizi, garantire condizioni di lavoro eque e premiare il merito. Ecco perché noi del 9,9 per cento creiamo “associazioni” chiedendo l’aiuto di altri professionisti.
Quando lo fanno i lavoratori – con i sindacati – è una violazione dei sacri princìpi del libero mercato, un comportamento antimoderno. Pensate se negli Stati Uniti i lavoratori si rivolgessero a consulenti e a “comitati di retribuzione” formati dai loro colleghi di altre aziende per stabilire quanto dovrebbero essere pagati, come fanno gli amministratori delegati.
Non è un caso se la ricompensa dell’istruzione universitaria è aumentata negli stessi anni in cui sono crollate le iscrizioni ai sindacati. Nel 1954 il 28 per cento dei lavoratori statunitensi era iscritto a un sindacato; nel 2017 la percentuale è scesa all’11 per cento.
Comunità dorate
Dal 1980 al 2016 il valore delle case a Boston è aumentato di 7,6 volte. Se teniamo conto dell’inflazione, il ritorno sull’investimento per i proprietari è stato del 157 per cento. Nello stesso periodo a San Francisco il ritorno sull’investimento è stato del 162 per cento. A New York del 115 per cento. A Los Angeles del 114 per cento. Se vivete in un quartiere come il mio, sarete circondati da vicini che pensano di essere dei geni del settore immobiliare. Se invece vivete a St. Louis (dove il ritorno è del 3 per cento) o a Detroit (meno 16 per cento) evidentemente non siete stati altrettanto intelligenti. Nel 1980 una casa a St. Louis valeva quanto un decoroso monolocale a New York. Oggi vale quanto un bagno di 7 metri quadri.
Negli Stati Uniti l’aumento del valore delle case (quelle di un certo tipo) è stato così strabiliante che, secondo alcuni economisti, il settore immobiliare è responsabile da solo dell’aumento della concentrazione della ricchezza degli ultimi cinquant’anni. Non sorprende che i prezzi siano aumentati nelle città più grandi, le miniere d’oro della nuova economia. Ma c’è un paradosso. Gli affitti sono talmente alti che le persone – soprattutto della classe media – abbandonano la città piuttosto che lavorare in quelle miniere.
Nonostante un livello salariale tra i più alti del paese, dal 2000 al 2009 l’area metropolitana di San Francisco ha visto migrare 350mila residenti verso zone a reddito più basso. Secondo le stime degli economisti Enrico Moretti e Chang-Tai Hsieh, nel periodo compreso tra il 1964 e il 2009 l’emigrazione dai centri produttivi di New York, San Francisco e San Jose è costata agli Stati Uniti 9,7 punti di crescita.
È ormai risaputo che la causa immediata di questa follia sta nei piani regolatori locali, che impongono restrizioni eccessive allo sviluppo edilizio e fanno aumentare i prezzi. Quello che è meno noto è che questo processo di spopolamento del cuore economico del paese è strettamente legato all’aumento della disuguaglianza e al crollo della mobilità sociale.
L’inflazione immobiliare fa aumentare in modo proporzionale la segregazione economica. Ogni collina e valle ormai ha un cancello immaginario che indica quanti soldi ci vogliono per passarci la notte. La segregazione scolastica è cresciuta ancora di più. Nel mio quartiere di Boston il 53 per cento degli adulti ha la laurea. Nel quartiere appena a sud la percentuale è del 9 per cento.
Questa scelta del quartiere su base economica e scolastica viene spesso rappresentata in termini di preferenze individuali: ai rossi piace stare con i rossi, ai blu con i blu. In realtà è un fenomeno che riguarda il consolidamento della ricchezza in ogni sua forma. A cominciare, ovviamente, dai soldi. I quartieri del privilegio si trovano sempre in prossimità di gigantesche macchine da soldi: una banca troppo grande per fallire, un simpatico monopolio tecnologico e così via. Le amministrazioni locali, che nel 2016 hanno incassato dalle imposte sui beni immobili la cifra record di 523 miliardi di dollari, fanno in modo che gran parte di quei soldi rimanga nella zona.
Ma la prossimità al potere economico non è solo uno strumento di accaparramento: è un agente di selezione naturale. Nelle zone dove vivono i privilegiati c’è un’aspettativa di vita più alta, reti sociali più utili e tassi di criminalità più bassi. Il pendolarismo, invece, provoca obesità, stress, insonnia, solitudine e divorzi, come ha scritto Annie Lowrey su Slate. Secondo una ricerca condotta in Svezia, se il luogo di lavoro dista 45 minuti o più da casa il rischio di divorzio aumenta del 40 per cento.
I meccanismi di questo divario geografico dilagante emergono chiaramente dal sistema dell’istruzione primaria e secondaria. Le scuole pubbliche sono nate perché dovevano offrire un’opportunità a tutti, ma negli Stati Uniti sono state di fatto privatizzate per servire i bisogni delle classi più ricche.
In California undici delle migliori scuole si trovano a Palo Alto, nella Silicon valley. Sono gratuite e aperte a tutti: per iscriversi basta trasferirsi in una città dove il valore mediano di una casa è di 3,2 milioni di dollari. In confronto Scarsdale, nello stato di New York, è un posto a buon mercato: i licei pubblici della zona mandano ogni anno decine di diplomati alle università della Ivy league, eppure il valore mediano di una casa è di appena 1,4 milioni di dollari.
Bisogna dire che la segregazione razziale è diminuita con l’aumento della segregazione economica. Noi del 9,9 per cento ne siamo orgogliosi. Quale migliore dimostrazione che per noi conta solo il merito? Ma è meglio che l’integrazione non si spinga troppo oltre: quando la percentuale di persone appartenenti a una minoranza supera una certa soglia, i quartieri all’improvviso diventano completamente neri. È inquietante, ma non certo sorprendente, scoprire che la mobilità sociale è più bassa nelle zone dove c’è una maggiore segregazione razziale. La vera rivelazione, però, è che a essere danneggiati non sono solo quelli coinvolti direttamente. Secondo le ricerche dell’economista Raj Chetty, “i dati mostrano una correlazione tra maggiore segregazione razziale e minore mobilità sociale dei bianchi”.
Naturalmente la relazione non vale per tutte le zone del paese, ed è sicuramente il riflesso statistico di una serie più complessa di meccanismi sociali. Ma sottende una realtà che era già nota agli schiavisti dell’ottocento: dividere per colore è ancora il modo più efficace per tenere a bada tutto il 90 per cento.
Forse la dimostrazione più chiara del potere di un’aristocrazia è il livello di risentimento che provoca. Da questo punto di vista il 9,9 per cento non si sta facendo mancare nulla, come dimostra l’aumento delle divisioni e dell’instabilità politica negli Stati Uniti.
Le elezioni presidenziali del 2016 hanno segnato un momento decisivo da questo punto di vista. Il risentimento è entrato alla Casa Bianca con Donald Trump, sostenuto da un’alleanza tra un minuscolo gruppo di ricchissimi appartenenti al club dello 0,1 per cento e quella fetta del 90 per cento che rappresenta tutto ciò che non è il 9,9 per cento.
Secondo gli exit poll della Cnn e del Pew research center, Trump ha vinto con un vantaggio di più di 20 punti percentuali tra gli elettori bianchi. Non si tratta dei soliti vecchi bianchi (anche se effettivamente sono vecchi). La prima cosa da sapere sulla grande maggioranza di questi elettori è che non sono tra quelli che la nuova economia premia come vincitori. È vero, non sono nemmeno poveri. Ma hanno ragione a sentirsi giudicati – e scartati – dal mercato.
Le contee che hanno votato per Hillary Clinton rappresentano il 64 per cento del pil, quelle che hanno sostenuto Trump il 36 per cento. Secondo le stime di Aaron Terrazas, economista dell’agenzia immobiliare Zillow, il valore mediano di una casa nelle “contee Clinton” è di 250mila dollari, nelle “contee Trump” è di 154mila. Calcolando l’inflazione, da gennaio del 2000 a ottobre del 2016 nelle contee dove ha vinto Clinton c’è stato un aumento del 27 per cento dei prezzi delle case; nelle contee dove ha vinto Trump l’aumento è stato del 6 per cento.
Ma il tratto distintivo degli elettori di Trump non è il reddito: è l’istruzione, o meglio la sua mancanza. L’ultimo studio del Pew dice che Trump ha perso di 17 punti percentuali tra gli elettori bianchi laureati. Ma si è rifatto con gli interessi tra i bianchi non laureati, dove ha prevalso di 36 punti.
Instabilità inevitabile
L’età dell’irragionevolezza ha trovato il suo eroe in Trump. L’uomo che si è fatto da solo è sempre stato l’idolo di chi non ce la fa. È l’incarnazione del sogno americano, l’uomo che non deve chiedere niente a nessuno, il ricco che anima le fantasie dei poveri. Sono gli ipocriti, gli istruiti, quelli che questo gruppo non sopporta. Con la sua totale mancanza di competenza politica e la sua ignoranza bellicosamente rivendicata, Trump è il rappresentate perfetto di un elettorato per il quale il buon governo equivale a una rivincita contro i cervelloni. Quando la ragione diventa nemica dell’uomo comune, l’uomo comune diventa nemico della ragione.
La polarizzazione della vita politica statunitense non è solo il frutto della cattiva educazione o di una mancanza di comprensione reciproca. È lo strascico rumoroso di una disuguaglianza dilagante. L’ultimo anno ha confermato qual è la principale conseguenza di questo processo: l’instabilità. Le persone irragionevoli tendono a essere ingovernabili. È questo il problema della curva di Gatsby. Apparentemente congela e rende immutabili perdite e vantaggi, ma in realtà il processo di cristallizzazione rende tutto il sistema più fragile. Se guardiamo alla storia, possiamo avere un’idea di come finiscono questi processi.
All’inizio del novecento la curva di Gatsby aveva messo alle corde la democrazia statunitense. Chi aveva i soldi comandava. I ricchi degli anni venti volevano quello che i ricchi vogliono da sempre. I loro servi erano pronti ad accontentarli. Nel 1926 l’amministrazione di Calvin Coolidge approvò un enorme taglio alle tasse in modo che tutti portassero a casa qualcosa. I ricchi pensavano di non avere nulla da temere, fino all’ottobre del 1929, quando la borsa crollò e cominciò la grande depressione.
Dov’era il 90 per cento mentre i ricchi mettevano in atto quel saccheggio? Una buona parte era ai comizi del Ku klux klan. Per la parte più rumorosa (anche se non necessariamente la più larga) del 90 per cento, la colpa di tutti i problemi degli Stati Uniti era degli immigrati parassiti. Gli stessi immigrati da cui discendono quelli che oggi si sono convinti che la colpa di tutti i problemi degli Stati Uniti sia degli immigrati parassiti.
L’ondata tossica della concentrazione della ricchezza, cresciuta nell’età dell’oro e arrivata all’apice negli anni venti, andò a infrangersi sulle secche della depressione e della guerra. Oggi ci piace pensare che i programmi di welfare piantati dal new deal e fioriti nel dopoguerra siano stati i principali fattori propulsivi di una nuova uguaglianza. La verità è che questi sforzi appartengono più alla categoria degli effetti che delle cause. La morte e la distruzione furono i veri agenti del cambiamento. Il crollo finanziario fece scendere i ricchi di parecchi gradini, e la guerra diede forza alla classe lavoratrice, in particolare alle donne.
Come cadono le aristocrazie
Non fu la prima ondata distruttiva della storia americana. Nella prima metà dell’ottocento la schiavitù rappresentava la più grande industria degli Stati Uniti. In quegli anni il settore era arrivato a una concentrazione tale che quattromila famiglie (più o meno lo 0,1 per cento della popolazione) possedevano circa un quarto di questo “capitale umano” e altre 390mila (circa il 9,9 per cento) avevano il resto.
L’élite schiavista era molto più istruita, sana e ben educata della grande maggioranza della restante popolazione bianca, per non parlare di quella ridotta in schiavitù. Controllava non solo il governo ma anche i mezzi d’informazione, la cultura e la religione. Dai pulpiti e dalle colonne dei giornali i suoi portavoce erano così convincenti nel sostenere la santità e i benefici dello schiavismo che milioni di bianchi poveri senza schiavi consideravano un onore sacrificare la loro vita per difendere il sistema. Tutto questo finì con 620mila soldati morti ed enormi danni alle proprietà. Per un po’ nel sud degli Stati Uniti la ricchezza fu ridistribuita, ma presto il processo si sarebbe invertito un’altra volta.
In The great leveler lo storico Walter Scheidel sostiene che la disuguaglianza finisce solo con la violenza e la devastazione: guerre, rivoluzioni, dissoluzione dello stato, pestilenze e altre calamità. È una teoria deprimente. Oggi, nel pieno di una nuova ondata di disuguaglianza, siamo disposti a scommettere che sia infondata?
La sfida del nostro tempo è rinnovare la promessa della democrazia statunitense invertendo il processo di calcificazione della società creato dalla disuguaglianza. Fin quando la ricchezza e le opportunità saranno mal distribuite la ragione sarà assente dalla politica, e senza la ragione sarà impossibile risolvere qualsiasi altro problema. È una questione di portata storica e mondiale. Ma le soluzioni finora proposte, nella maggior parte dei casi, sono inefficaci.
I sostenitori della meritocrazia hanno proposto test migliori e aggiornati per l’ammissione ai loro corsi di laurea dorati. Ma non invertiremo la curva di Gatsby con qualche ritocco alle formule che escludono le persone dalle nostre università di lusso. A livello fiscale gli esperti hanno messo in discussione gli aiuti più sfacciati alle famiglie del 9,9 per cento. Perfetto. E poi? I conservatori continuano a riciclare proposte a sostegno della famiglia tradizionale o il ritorno ai vecchi valori religiosi. Certo, rafforzare i legami della famiglia e della comunità è un obiettivo nobile, ma esaltare queste virtù non salverà le famiglie dagli effetti di un’economia truccata.
Nel frattempo i radicali da bar dicono di volere la rivoluzione. Evidentemente non sanno che le uniche soluzioni semplici sono quelle più violente e distruttive. Il modello statunitense è sempre stato una stella polare, non un programma politico e tantomeno una realtà. I diritti delle persone non sono mai stati né potranno mai essere sanciti in una manciata di frasi o vecchie dichiarazioni. Devono costantemente tenere il passo con il mondo in cui viviamo.
Oggi gli statunitensi devono capire che l’accesso alla sanità, l’opportunità di attingere alla conoscenza e la possibilità di vivere in un quartiere dignitoso non sono privilegi per quei pochi che hanno imparato a manipolare il sistema. Sono diritti che sgorgano dalla stessa fonte da cui nascono cose che una generazione precedente ha chiamato “vita”, “libertà” e “ricerca della felicità”.
Il cambiamento fondamentale dovrà arrivare da Washington. Chi crea il potere monopolistico può anche distruggerlo; chi permette al denaro di influenzare la politica può anche impedirlo; chi ha spostato il potere dal lavoro al capitale può restituirlo. Ma il cambiamento dovrà avvenire anche a livello statale e locale. È l’unico modo per aprire le comunità e riaffermare il carattere pubblico dell’istruzione.
Ogni cittadino statunitense dovrà dare il suo contributo, soprattutto quelli che al momento appaiono come i vincitori di questa fase della partita. Dobbiamo toglierci dagli occhi il riflesso del nostro successo e pensare a cosa possiamo fare nel quotidiano per quelli che non sono i nostri vicini di casa. Dobbiamo batterci per le opportunità dei figli degli altri come se da questo dipendesse il futuro dei nostri. Perché probabilmente è così.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Articolo originale

venerdì 24 luglio 2020

Alberto Camerini - Cenerentola e il Pane Quotidiano (1976)

Profondamente permeato dagli umori musicali brasiliani, Alberto Camerini è diventato noto in Italia come l'Arlecchino elettronico, con successi easy-pop come "Rock'n'roll Robot" e "Tanz Bambolina". Ma la sua carriera, assai più complessa e multiforme, dalle sperimentazioni wave all'approdo ska-hardcore degli ultimi anni, è la parabola di una generazione.
Nato in Brasile in una famiglia italiana ebrea trasferitasi nel Paese sudamericano nel 1938 a seguito delle Leggi razziali promulgate dal fascismo, Alberto ad undici anni rientra in Italia. Dopo una prima band chiamata Sound, formata con Roberto Colombo al Liceo Beccaria di Milano, e la successiva Dreaming Bus Blues Band con un repertorio di blues psichedelico, Alberto Camerini forma Il Pacco di cui facevano parte Eugenio Finardi, Walter Calloni, Lucio Fabbri e Ricky Belloni. Contemporaneamente inizia l'attività di sessionman per la Dischi Ariston a Milano collaborando con vari musicisti, il primo dei quali è Claudio Rocchi nell'album Volo magico n. 1 (1971). Segue Simon Luca nel disco Per proteggere l'enorme Maria del 1971 e nel gruppo quasi omonimo (L'Enorme Maria), composto da Ricky Belloni, Eugenio Finardi e Fabio Treves fra gli altri. Sempre per la Ariston, come chitarrista, suona in album di Ornella Vanoni. In quel periodo partecipa anche all'album dell'Equipe 84 Dr. Jekyll e Mr. Hyde del 1973, inoltre collabora con gli Stormy Six di Franco Fabbri; nel 1974 suona con Patty Pravo nel disco Mai una signora e in tour in Spagna in compagnia di Roberto Colombo e Gigi Belloni. Nel 1975 partecipa come chitarrista e produttore al primo album Cramps di Eugenio Finardi Non gettate alcun oggetto dai finestrini. Alberto Camerini inizia la sua carriera solista cantando Bob Dylan nei folk club milanesi. Frequenta tra il '73 ed il '76 la redazione di Re Nudo di via Maroncelli e festival annessi, incluso quello del 1974 tenutosi al parco Lambro, con un nastro di musica elettronica: lì conosce Ivan Cattaneo, Franco Battiato, Ricky Gianco e gli Area. Entra in contatto con gli ambienti della sinistra extra-parlamentare universitaria milanese, dove vive l'esperienza della nascita delle prime radio private milanesi. Firmato un contratto con la Cramps, pubblica il suo primo singolo nel maggio del 1976, Pane quotidiano/In giro per le strade, seguito dopo pochi mesi dal suo primo album Cenerentola e il Pane Quotidiano, che evidenzia sonorità rock metropolitane con influssi della musica brasiliana: a suonare con Alberto sono Walter Calloni alla batteria, Hugh Bullen al basso, Paolo Franchini al basso, Massimo Villa al basso, Lucio Fabbri al violino, Patrizio Fariselli alle tastiere, Antonello Vitale alla batteria, Pepè Gagliardi al piano, mentre Alberto canta e suona la chitarra; a produrlo è chiamato Paolo Tofani. L'anno successivo pubblica Gelato metropolitano, un album più marcatamente acustico e vicino alle sonorità brasiliane, con tematiche politiche ed ambientaliste, prodotto da Ares Tavolazzi e Giulio Capiozzo. Nel 1978 chiude l'esperienza Cramps con l'album Comici cosmetici, lavoro di transizione (prodotto da Shel Shapiro) tra il vecchio ed il nuovo stile più marcatamente elettronico, in cui si avvertivano già le sonorità del nascente punk rock londinese ed influenze glam. Dopo la vendita della Cramps alla Philips, Camerini passa alla multinazionale CBS. I suoi successi arriveranno negli anni ottanta: nel 1980 viene pubblicato Alberto Camerini; il brano di punta, Skatenati, ispirato allo ska, è seguito da canzoni come Serenella, Il re di plastica ed altre ancora. Ma sarà l'anno successivo quello della grande esplosione con il brano dal titolo Rock'n'roll robot. Tratto da Rudy e Rita, sarà il singolo che spianerà a Camerini la strada per la vetta della classifica: da qui avranno origine l'immagine dell'Arlecchino elettronico, il trucco glam, le vendite da disco d'oro, le apparizioni televisive e una tournée. Il personaggio di Arlecchino, il linguaggio comico, le tematiche sul cibo, la mimica sul palco da rock star a la David Bowie e Freddie Mercury, il gusto delle trovate sceniche (manichini sul palco, scritte al neon) sono tutti tratti comuni ad altri artisti italiani e artisti stranieri che Camerini porta sul palco delle sue tournée in quel periodo. Per il suo stile diventa insieme ad altri colleghi esponente della musica elettronica degli anni ottanta. Il successo viene bissato l'anno dopo con l'album Rockmantico, top ten nelle classifiche di vendita, comprensivo del singolo Tanz bambolina (1982) e di Maccheroni elettronici e Fanatico di Rock'n'roll. Il nuovo LP, nel 1988, fu Angeli in blue jeans, nel quale vengono abbandonate le tastiere e le drum-machines di Rockmantico. Nel 1995 Camerini riesce a realizzare un cd per la Duck Record: Dove l'arcobaleno arriva, influenzato dalla musica brasiliana. Nel 2001 pubblica l'album Cyberclown col gruppo punk degli Skidsoplastix, inaugurando la nascita dell'etichetta indipendente 316 records e uno stile di nuovo rock punk elettronico. Nel passaggio dalla disco music al punk rimangono però le tematiche favolistiche che avevano contraddistinto la sua naturale ispirazione. L'esperienza di Cyberclown lo porterà nel 2005 a rinnovare la collaborazione con gli Skidsoplastix con l'uscita dell'album Kids Wanna Rock dove Camerini riesce a realizzare quelle sonorità punk americane che aveva solo sfiorato nel precedente Cyberclown. È stato di ispirazione per altri noti artisti italiani contemporanei e successivi, come Morgan, i Bluvertigo e gli Eiffel65. È stato quindi un punto fermo per tutti gli altri artisti italiani synth pop degli anni successivi essendo stato uno dei primi italiani a trasformare le sue composizioni punk e rock'n'roll in musica elettronica (in questo senso molto simile a Franco Battiato) come testimoniato da cover, live, interviste e collaborazioni. In alcune interviste ha dichiarato di aver sofferto di depressione, uno dei motivi per cui non ha proseguito la ribalta del successo. Camerini ha spiegato di aver voluto unire Arlecchino, la maschera della commedia dell'arte italiana, alla cultura rockabilly, il tutto rivisitato in chiave moderna con la tematica dell'alienazione digitale della società occidentale degli anni ottanta, precisando di aver scelto questo personaggio in quanto maschera che rappresenta più fedelmente se stesso. Resta il fatto, certo, che Camerini in questo mondo che evolve verso il nulla virtuale, verso la vittoria dei mass-media, dell'informatica e della televisione, ci sguazzi divertito, ai lati, ridicolizzando se stesso e la società tutta, a partire dal basso, dai valori, dai principi, dalle tradizioni, dai luoghi comuni, dai falsi miti. Ed è anche facendo uso di prodotti artificiali che il moderno Arlecchino riesce nel suo intento dissacrante e ci mostra come, in mezzo al grande pasticcio dei nostri tempi, nel gigantesco ristorante, fra gli sfarzi e le ricchezze inutili, fra i succulenti e svariati cibi che sempre fanno capolino nei testi delle canzoni e che, ancora una volta, fungono da simboli in un sistema di simboli, ecco che compaiono elementi destabilizzanti come il "pane quotidiano", il "gelato metropolitano", i "maccheroni elettronici", "l'amica che dà tanta allegria con i suoi vestiti bianchi e i suoi sorrisi colorati"…
La caratteristica principale di Cenerentola e il Pane Quotidiano è la presenza di musicisti fuoriclasse che creano un irresistibile suono metropolitano e nervoso, con il nostro a far faville con la sua chitarra. Le canzoni si muovono tra la disillusione tipica della seconda metà dei ’70 e una forte vena ironica (vedi Tv baby, con le sue critiche al mondo televisivo) e polemica (Cenerentola, a fine disco, su una lavoratrice sfruttata che di notte si trasforma in prostituta). Camerini stava provando a regalare alla nostra musica il lasciapassare d'accesso verso qualcosa di epocale, proponendo con inventiva e bravura fuori dal comune ritmi e sonorità (il punk e lo ska prima di lui nel Belpaese non si sapeva neanche che roba fossero) che da noi si sarebbero imposti solo più tardi, accompagnati dai solenni squilli di tromba che la critica "di un certo livello" dedicherà poi a questo o quell'artista solo perché il suo nome e cognome suonava più straniero di un altro. Qualcuno magari cominciava ad averne già abbastanza di questi cantantucoli che, in tutti i modi, cercavano di apparire scomodi e il più possibile "diversi", infarcendo i loro testi di "roba" proibita: le lamette tagliavene della Rettore, il malcelato travestitismo di Renato Zero, le bollicine e il fegato spappolato di Vasco Rossi. E, in mezzo a loro proprio lui, Alberto Camerini, con la sua "Droga (aiutami dottore)", il suo "Pane quotidiano", le sue bizzarre filastrocche, la rivisitazione in chiave anfetaminica dei grandi classici della fiaba (Cenerentola in questo disco, e qualche LP più avanti, Alice nel Paese delle Meraviglie che, guarda caso, fa rima con pastiglie), la polemica fanciullesca contro i simboli del progresso, "La straordinaria storia della televisione (a colori)" e, sempre per restare in tema, la bellissima "Tv Baby". Ma forse è proprio questa l’identificazione più azzeccata di Alberto Camerini: un bambino. Che, in quanto tale, è legittimato a parlare di tutto, tanto gli adulti non gli danno retta. Trattandolo, anzi, come una sorta di alieno; ascoltatevi, per averne riprova, "La ballata dell’invasione degli extraterrestri", semmai ridendo dell’evidente assurdità delle cose che dice, proprio perché è un bambino immaturo che un giorno crescerà. Camerini, invece, era già grande allora, in quel 1976 di Cenerentola e il pane quotidiano: acido e cattivo quanto basta, e proprio per questo tremendamente incompreso. Uno con le sue idee in America sarebbe esploso al 100%. Anche in Italia, in verità, avrebbe potuto, magari scendendo a patti con il commerciale, ma Alberto non è caduto nella trappola. Di fronte all’alternativa, neanche certa, di avere qualche soldo in più, ma senz'altro meno dignità professionale, lui ha detto "no, grazie". Ed ha preferito rimanere com'era. Un bambino immaturo che un giorno crescerà. "Sono nato nel sole di un paese grande - racconta - che libero forse non è stato mai, un paese grande, di gente felice, di grandi foreste e di grandi città…" Per cui ecco che all'elettronica, ai sintetizzatori, all'elettricità degli strumenti, alla forma-canzone tipicamente rock, Camerini aggiunge samba, danze Catira degli indios, percussioni marimba, saudade, liturgia macumba, l'afoxe di Bahia e tutti i generi che compongono quell'eterogeneo melting pot di una nazione grande, molto particolare, in cui si sono assimilate influenze di tutte le popolazioni, in cui hanno convissuto il voodoo, il condomblè, le leggende dei pirati e cercatori d'oro, le orchestre dei musicisti jazz (la bossanova) ecc.
Camerini è un personaggio laterale, dinamico, non imprigionabile in clichè, e dal suo gioco di simboli, ne esce non-simbolo. Forse un robot, forse Arlecchino, forse un extraterrestre, forse semplicemente un cantautore trasformista, forse un pazzo, forse un buffone, ma, di certo, fra tutti questi "forse", rimane di lui un'immagine scivolosa, che non si fa acciuffare e che, in questo grande teatro, vi entra solo per un motivo: per spogliarlo e deriderlo, rimanendone a lato. Ancora oggi lo si può rintracciare nei più disparati rifugi, strimpellare con la chitarra acustica antiche canzoni settecentesche, lontane melodie mediterranee intrise di melodramma e psichedelia, oppure samba e antiche canzoni popolari brasiliane di protesta. E' perfino facile, ultimamente, scovarlo sui palchi di fumosi centri sociali, sostenuto dai più "arrabbiati" estremisti della triste scena hardcore italiana, alle prese con il punk più sbracato o con smaliziate canzoncine ska. La sua attuale band, gli Skidsoplastix, è formata, oltre che da un fine chitarrista jazz, da un bassista proveniente dal combo dei Punkreas e dall'ex batterista dei Pornoriviste, oscuri figuri dimostratisi pronti, in ogni caso, a "sporcarsi le mani" per questo Grande Vecchio, riconoscendogli, fra le altre cose, di essere stato uno fra i primi a pasticciare con il punk in Italia e di essere stato uno fra i primi, se non proprio il primo, in questo caso, a introdurvi lo ska. Uno dei limiti, se vogliamo, è rintracciabile proprio nella discontinuità: a guardar bene, infatti, quasi nessuno dei suoi album convince da capo a fondo. Perennemente instabile, spesso sopra le righe, durante la sua trentennale carriera Camerini ha sempre affiancato a canzoni straordinarie altrettanti pezzi non riusciti, a volte (forse) pretenziosi, a volte (forse) troppo deboli o incompiuti. A mio parere il suo esordio concept e prog è pero' il suo lavoro piu' riuscito.

lunedì 4 maggio 2020

#andratuttobene

L’epidemia che stiamo vivendo non è frutto del caso: essa è figlia di una serie di fattori che l’umanità più consapevole e preparata denuncia da tempo. La distruzione degli ecosistemi naturali, l’estinzione di massa di decine di migliaia di specie, la crescita esponenziale e incontrollata della popolazione, il sovraffollamento, la deforestazione. Modifichiamo il clima di intere aree geografiche causando morie di specie ed esodi di massa di altre. Cancelliamo millenni di evoluzione della vita per far posto a noi e ai nostri animali addomesticati. Alleviamo decine di miliardi di bovini, suini, ovini, polli, riempiendoli di antibiotici e cibo spazzatura, per portarli in tempo record ai mattatoi, magari dall’altra parte del mondo. Li facciamo vivere in ambienti squallidi e promiscui, dove entrano in contatto con specie selvatiche, ormai prive di habitat, portatori di quei virus che mutando arrivano poi fino a noi. La zoonosi è ogni giorno dietro l’angolo. E la colpa non è certo di pipistrelli, scimmie e maiali. La colpa è della nostra cultura antropologica di riferimento. Dell’antropocentrismo eretto a religione globale, dell’organizzazione sociale verticistica e inefficiente, del modello economico vigente che premia l’accaparramento personale a discapito dell’interesse collettivo. Tutto questo avviene perché una parte della specie possa continuare ad accumulare profitti e potere. Violiamo ogni angolo della Terra e miliardi di esseri umani non hanno nemmeno risorse di base come acqua potabile e cibo. Distruggiamo la vita ovunque per avere accesso ad alcuni beni di consumo inutili, che paghiamo con la precarietà economica ed esistenziale, l’assenza di servizi fondamentali, il disagio psicologico perenne. Violentiamo la biodiversità costruita in millenni e poi non abbiamo nemmeno le risorse materiali e sanitarie per affrontare le crisi che provochiamo, dato che il profitto scaturito da tale scempio lo utilizziamo per alimentare guerre, sfruttamento e povertà. Una società umana efficiente avrebbe prima rimosso le cause che potevano portare alla pandemia. Sarebbe poi intervenuta energicamente contro il primo focolaio, e infine avrebbe predisposto da tempo strutture adeguate ad affrontare l’emergenza. Invece noi passiamo le giornate a ripeterci che #andratuttobene mentre le persone muoiono e il personale sanitario, in trincea senza elmetto, è costretto a sacrifici estremi; a ripeterci che torneremo a riabbracciarci mentre devastiamo il pianeta, sfruttiamo ogni forma di vita, lasciamo morire di fame, sete, malattie decine di milioni di persone, crepiamo sul lavoro e di lavoro, viviamo nella precarietà e nell’emarginazione. Mentre siamo infelici, soli e sconfitti. Il nostro sistema economico, politico e sociale ha dimostrato di non essere riformabile. Possiamo subirlo, sfruttarlo, accettarlo o combatterlo. La scelta che facciamo determina la nostra collocazione nella società e nella storia.

venerdì 24 aprile 2020

domenica 19 aprile 2020

20 ulteriori canzoni prog delle quali non potrete piu' fare a meno

Rieccoci al nostro consueto appuntamento con le 20 canzoni prog appartenenti ad album che non rendono loro giustizia. Enjoy.
Aaron English - Animals Like Us/Sea Of Nektar (da All the Waters of This World, 2002) Aaron English e' un compositore americano dedito ad una piacevole mistura di world music, progressive, rock tradizionale e pop. Stile e voce molto simili a certe composizioni del Peter Gabriel solista, l'album da cui queste due canzoni, a mio parere egualmente ben scritte ed eseguite, sono estratte e' considerato dalla critica il migliore della sua fin qui breve carriera. Aaron canta e suona il piano, affidandosi ad uno stuolo di collaboratori per dare forma alla sua idea di musica, ricca ed elaborata, ma mai astrusa o di difficile ascolto, anzi, la sua proposta e' orecchiabile ed easy listening. Un artista molto poco conosciuto ma incredibilmente talentuoso al quale val la pena dare un ascolto.
Azymuth - Jazz Carnival (da Light as a Feather, 1979) Gli Azymuth sono una band brasiliana innamorata del jazz e della fusion, e si sa che da quelle zone arriva la miglior fusion del mondo. Il motivo principale di questa meravigliosa cavalcata strumentale, sospesa fra funk, escursioni strumentali, ritmi sudamericani ed un refrain irresistibile, fu la sigla del programma Mixer, condotto da Paolo Liguori negli anni '90. I musicisti di questo validissimo gruppo formato nel 1971 e ancora in attivita' sono Jose Roberto Bertrami alle tastiere, Alex Malheiros al basso ed alla chitarra ed Ivan Conti a batteria e percussioni, funamboli brasiliani nel vero senso della parola. Questa canzone e' solo un assaggio delle loro capacita', se piace consiglio di provare anche il resto.
Campo Magnetico - Appuntamento al Buio (da Li Vuoi Quei Kiwi?, 2016) Unico album finora della band Campo Magnetico, formatasi a Belluno nel 2014 e che propone un interessante prog psichedelico con influenze jazz, elettroniche e minimaliste. Il sound e' completamente strumentale, e si basa perlopiu' sul flauto di Gianni Carlin, coadiuvato da Emanuele Burigo alla chitarra, Antonio Nabari al basso ed Enrico Tormen alla batteria. L'album e' stato autoprodotto e stampato in sole 100 copie, percio' e' praticamente introvabile su supporto fisico, ma lo si puo' sempre scaricare online per fortuna. Lavoro non riuscitissimo nel suo insieme, anche se le tracce piu' brevi non sono male, la band deve migliorare un po' l'amalgama e l'affiatamento sulle composizioni piu' lunghe e complicate, a mio parere. Appuntamento al Buio e' comunque ben riuscita, nettamente divisa in due parti, la prima condotta dal flauto e la seconda da un indovinato intreccio chitarra/batteria, in un'atmosfera groovy e calda.
Daemonia - Mater Tenebrarum (da Dario Argento Tribute, 2000) I Daemonia sono uno spin-off dei Goblin formati da Claudio Simonetti all'inizio del millennio in corso ed autori di un paio di album, composti soprattutto da cover di canzoni dei Goblin ed Ennio Morricone, piu' qualche traccia originale, come questa stupenda Mater Tenebrarum, quasi epic metal nel suo incedere e nel canto in latino. Oltre al summenzionato tastierista ex Goblin, il quale suona ancora in giro per il mondo e viene qui a Kansas City quasi ogni anno, si adoperano alla buona riuscita dell'opera Federico Amorosi al basso, Nicola Di Staso alla chitarra, Titta Tani alla batteria e Hong Mei alla voce. Non penso serva aggiungere altro, il curriculum di Claudio parla per se', se vi piacciono i Goblin allora anche i Daemonia meritano una chance.
Dream Theater - Take the Time (da Images And Words, 1992) Non penso sia necessario alcun tipo di presentazione per i Dream Theater, probabilmente la band prog-metal piu' famosa al mondo, emersa proprio mentre emergeva il mio apprezzamento per la musica progressiva. Gruppo al quale sono quindi molto affezionato per avermi in qualche modo svezzato musicalmente, ma il quale e' stato poi superato nei miei gusti da altre band venute prima di loro che io ho pero' scoperto dopo. Images & Words e', secondo la critica, il loro miglior album alla pari di Metropolis Part II del 1999, e' un album per il quale nutro sentimenti particolari e di cui consiglio vivamente l'ascolto, e questa canzone e' secondo me la migliore del lotto (Pull Me Under e' un'altra hit di questo riuscitissimo lavoro). I musicisti componenti della band, oggigiorno famosissimi, si sono conosciuti nel 1985, quando due compagni freschi del conservatorio di Long Island, New York, uno dei piu' prestigiosi al mondo, cercavano un batterista ed un cantante per mettere su una band che unisse le sonorita' degli Yes, dei Rush e degli Iron Maiden, gruppi di riferimento dei due compagni, il chitarrista John Petrucci ed il bassista John Myung. Fortuna volle che Mike Portnoy, uno dei piu' abili batteristi che il mondo abbia mai visto, rispondesse all'annuncio, seguito dal cantante canadese James LaBrie. Infine Kevin Moore, tastierista, contattera' la band di sua iniziativa per chiedere di poter collaborare, e questa e' l'ultima delle incredibili coincidenze che ha messo insieme cinque dei piu' tecnici e talentuosi musicisti in circolazione. Il resto e' storia, i Dream Theater continuano a sfornare lavori di pregevole fattura tuttora, hanno contribuito quasi esclusivamente alla nascita di un genere, del quale hanno definito i canoni e dettato le direttive per decine di gruppi cloni; imprescindibili per qualunque amante del prog e del metal.
Galadriel - Nunca Da Noche (da Muttered Promises From an Ageless Pond, 1988) Gruppo spagnolo autore di quattro album fra il 1988 ed il 2007, il loro e' un prog molto dolce, etereo, acustico, sospeso in atmosfere sognanti e romantiche. La band e' formata da Jesús Filardi alla voce, Manolo Macia alla chitarra, Manolo Pancorbo all'altra chitarra ed al basso, David Aladro alle tastiere e Alcides Trindade alla batteria. Niente di eccezionale, ma neanche tutto da buttar via.
Gekko Projekt - Black Hole (da Electric Forest, 2002) Quartetto di Los Angeles, i Gekko Projekt propongono un prog molto vicino al rock classico, quindi composizioni semplici e canoniche, strofa-strofa-ritornello, ma tutto fatto con uno stile piu' complesso del solito, un rock elaborato che porta le canzoni a durare cinque o sei minuti, condite di assoli e variazioni sul tema. Uno stile che incontra decisamente i miei gusti, immerso in atmosfere allegre e spensierate, in netto contrasto con i testi fra l'altro, che ne elevano ulteriormente il livello. Peter Matuchniak alla chitarra, Vance Gloster alle tastiere ed alla voce, Rick Meadows al basso ed Alan Smith alla batteria formano questa combo sconosciuta ai piu' ma secondo me validissima. Val sicuramente la pena dare un ascolto ai loro due album.
Gizmodrome - Stay Ready (da Gizmodrome, 2017) Cosa succede se metti insieme Stewart Copeland, batterista dei Police, Mark King, bassista del gruppo pop Level 42, Vittorio Cosma, tastierista di estrazione classica che ha suonato con P.F.M. ed Elio e le Storie Tese fra i tanti, ed infine Adrian Belew, chitarrista dei King Crimson? Questo bislacco Gizmodrome, prog molto zappiano e poppeggiante, purtroppo raramente convincente. Oltre a Stay Ready si distingue anche Ride Your Life, ma le aspettative che avevo su quest'album sono andate purtroppo deluse. Speriamo in un seguito all'altezza del livello dei musicisti coinvolti, forse troppo agli antipodi come stile ed estrazione musicale.
Grey Lagoon - Mechanical Heartbeat (da Syncretic, 2006) I Grey Lagoon vengono da Roma ed hanno inciso due album fra il 2006 ed il 2012. Il loro e' un mix di prog di stampo moderno, oserei dire Chroma Key, e Canterbury Sound, con ampie spruzzate di elettronica e ritmi danzerecci, molto particolare e riconoscibile; composizioni in genere rette da robusti e rocciosi riff di basso, mentre chitarra e tastiere disegnano le melodie, per uno schema ampiamente visto in passato ma qui ben eseguito e originale abbastanza. I musicisti sono Roberto Cruciani al basso (davvero bravo) ed alla voce, i fratelli Massimo e Fabrizio Calcabrina rispettivamente a tastiere e batteria, con Gianni Boschetti alla chitarra, ed dopo un primo album incoraggiante riescono a rimediare una collaborazione con Daevid Allen e con Niels Van Hoorn, gia' con i Legendary Pink Dots e gli Strange Attractor, che portera' alla registrazione dell'album Valentine Days nel 2012, album purtroppo deludente, decisamente un passo indietro rispetto all'esordio. E cosi' si conclude la breve avventura di questa meteora del mondo prog, davvero un peccato.
Khan - Mixed Up Man of the Mountains (da Space Shanty, 1972) I Khan sono stati una band incubatrice di musicisti che poi andranno a formare gli Egg, i Gong, gli Hatfield and the North e finanche i National Health. Formatasi a Londra nel 1971 e dissoltasi nel 1972, il suo unico lascito e' questo acerbo quanto affascinante Space Shanty, dal quale estraggo la traccia a mio parere meglio riuscita. Sono canzoni ancora molto rockeggianti, che pero' lasciano intravvedere quelle caratteristiche che poi saranno meglio sviluppate e formeranno le linee guida per sottogeneri come lo stile di Canterbury e lo psych-prog. Steve Hillage, che non necessita presentazioni, e' il chitarrista, cantante, nonche' autore delle musiche, Nick Greenwood suona il basso, Eric Peachey e' il batterista, mentre un giovane Dave Stewart mostra tutta la sua bravura alle tastiere.
Leprous - Foe (da Coal, 2013) Traccia estratta dal quarto album dei norvegesi Leprous, arrivati alla settima pubblicazione l'anno scorso e ormai affermatisi come realta' solida e concreta della scena prog-metal. Il loro non e' solo prog-metal, e' una fusione di diversi stili di metal, dall'heavy al death al tech, solitamente etichettato come avant-garde metal, in cui le chitarre funamboliche e la voce pulita sono solitamente i protagonisti principali. Ascoltate questa canzone e rimarrete conquistati dalla loro proposta. I membri della band, tutti giovanissimi, sono: Einar Solberg alla voce ed alle tastiere, Tor Oddmund Suhrke alla chitarra, Øystein Skonseng Landsverk all'altra chitarra, Rein Blomquist al basso e Tobias Ørnes Andersen alla batteria; li vidi qui a Kansas City nel 2014 o 2015, fecero un gran bel concerto e giovani fan accorsero numerosi, con mio gran piacere. Quella sera conobbi anche una cam girl che mi invito' a casa sua per una cosa a tre con il suo ragazzo. Declinai gentilmente l'offerta.

Mellow Candle - Heaven Heath (da Swaddling Songs, 1972) Band irlandese dallo stile prevalentemente folkeggiante ma sporcato di rock e blues, come tanti gruppi stavano facendo in quegli anni con diversi dosaggi. Un solo album all'attivo, tranne un'altra pubblicazione negli anni '90 che pero' semplicemente recupera alcune canzoni non incluse nel primo album. La caratteristica principale e tratto distintivo dei Mellow Candle e' l'uso di una doppia voce femminile, per il resto si tratta perlopiu' di ballate e piacevoli canzoni rock'n'roll anni '70, dalle quali spicca Heaven Heath a mio parere. I componenti sono Alison Williams alla voce, Clodagh Simonds all'altra voce ed al piano, David Williams alla chitarra, Frank Boylan al basso, William Murray alla batteria.
Museo Rosenbach - Zarathustra (da Zarathustra, 1973) Album culto del progressive italiano ma anche del prog in generale, i Museo Rosenbach si formano a Bordighera nel 1971, producono l'album in questione e si sciolgono, per poi riformarsi per pochi anni e con una formazione diversa a cavallo del 2000 e pubblicare altri due album, decisamente inferiori. La traccia che ho scelto e' una lunga suite che occupa tutta la prima facciata dell'omonimo disco, 20 minuti di puro prog italiano, fra sfuriate hard, barocche cavalcate di tastiera, momenti sinfonici, minimalismo e psichedelia; sul tutto domina la possente voce di Stefano Galifi, che oggi canta ne Il Tempio delle Clessidre. Completano la formazione Enzo Merogno alla chitarra, Pit Corradi alle tastiere, Alberto Moreno al basso ed al piano e Giancarlo Golzi alla batteria. Tutto l'album e' un piccolo gioiello, ma questa canzone e' entrata negli annali, testi impegnati a sfondo filosofico come si puo' intuire, gran ritmo e fluidita' di ascolto.
Napoli Centrale - Abbasso lo Zio Tom (da Napoli Centrale Featuring James Senese, 1997) I Napoli Centrale sono stati un gruppo importantissimo per lo sviluppo e la diffusione del jazz-rock in Italia, sono stati anche una delle prime band nostrane ad annoverare componenti stranieri. Nati all'inizio dei '70, pubblicano il miglior materiale fra il 1975 ed il 1977: Napoli Centrale, Mattanza e Qualcosa Ca Nu Mmore sono lavori imprescindibili se vi piace il genere, anche se la mia canzone preferita e' tratta da un album estemporaneo, quando James Senese era gia' fuori dal gruppo ma aveva comunque acconsentito ad una collaborazione. Dicevamo di Gaetano detto James Senese, meticcio napoletano e afro-americano, suo padre torno' in North Carolina 18 mesi dopo la sua nascita senza fare piu' ritorno, imparo' a suonare il sax a 12 anni e pochi anni dopo decise di formare i Napoli Centrale con Franco Del Prete alle tastiere, coadiuvati da Toni Walmsley al basso, Mark Harris alle tastiere, ed Agostino Marangolo alla batteria, il quale sarebbe andato nei Goblin un paio d'anni dopo. Abbasso lo Zio Tom e' una canzone stupenda, ritmo sempre sostenuto, fiati gran protagonisti, chitarra presente e tastiere in grande spolvero, la componente rock e' qui prevalente, ma la parte migliore sono i testi, che inventano un dialogo fra uno schiavo di colore ed il suo padrone.
Ornithos - L'Orologio (da La Trasfigurazione, 2012) Progetto parallelo di alcuni membri del Bacio della Medusa, di cui ho gia' recensito l'ottimo album Discesa agli Inferi di un Giovane Amante, gli Ornithos propongono uno stile molto simile, forse meno hard e piu' folk, ma comunque prog italiano classico, molto Banco e qualche influenza Tulliana, molto godibile in linea generale. Il loro unico album e' piacevole, e questa e' la mia traccia preferita, dominata da fiati e tastiere, melodica e rapida al punto giusto, con qualche azzeccato cambio di tempo. I membri della band sono Diego Petrini a batteria e tastiere, Eva Morelli ai fiati, Federico Caprai al basso, Antonello De Cesare ad una chitarra, Simone Morelli all'altra chitarra ed infine Maria Giulia Carnevalini e' la cantante. Progetto interessantissimo di alcuni dei musicisti italiani piu' dotati della scena contemporanea.
Phaedra - Dicono (da Ptah, 2010) Band di Trento la cui fondazione ci porta indietro fino al 1993, i Phaedra riusciranno a pubblicare un album solo nel 2010, lo splendido Ptah da cui questa canzone e' tratta. Gruppo di non facile gestione vista la line-up di 8 elementi, e forse per questo le loro pubblicazioni sono state cosi' sporadiche, solo due album fra il 2010 ed il 2013. Propongono un prog che classificherei come appartenente alla corrente neo, temi romantici e musica orientata alla melodia, con abbondanti fughe strumentali, cambi di tempo e tecnicismi, in un clima pastorale e sinfonico, massiccia l'influenza italiana ed inglese. Gli otto musicisti sono Claudio Granatiero al canto, Stefano Gasperetti a tastiere e chitarra, Matteo Armellini alla batteria, Claudio Bonvecchio al basso ed alla chitarra, Fabrizio Crivellari al flauto, Elisabetta Wolf ed Antonio Floris al violino, infine Davide Tabarelli alle tastiere. "Dicono" e' un brano d'effetto, dall'altissimo livello tecnico senza risultare cervellotico o poco orecchiabile, con testi apocalittici che suonano incredibilmente attuali visti gli strani tempi che corrono.
Santana - Fried Neckbones and Home Fries (da San Mateo Sessions, 1969) Prendi artisti come Carlos Santana, Frank Zappa o Miles Davis, i quali sono a volte catalogati come facenti parte del genere progressivo, ma possiamo davvero considerarli prog? Secondo la mia opinione personale la risposta e' no, tale affermazione non renderebbe giustizia alla grandezza dei musicisti menzionati, i quali hanno inventato ciascuno un proprio stile personale e non hanno mai avuto intenzione di fare "prog". Cio' non toglie che alcune canzoni di questi artisti siano decisamente prog. Fried Neckbones and Home Fries appartiene ad una raccolta di nastri antecedenti alla registrazione del primo album e che furono recuperati in seguito, compare su diverse raccolte ma non e' mai comparsa su un album in studio per definizione. 10 minuti di ritmi ipnotici ed irresistibili, come si conviene allo stile onirico delle migliori escursioni made in Santana, su una base di tastiere e percussioni sulla quale svolazza la chitarra di Carlos.
Sophya Baccini - Al Ritmo di una Storia (da Aradia, 2009) Sophya e' una delle migliori cantanti italiane in circolazione, vanta una lunga carriera come collaboratrice per band importanti come Osanna, Delirium e Greenwall, oltre ad essere la frontman dei Presence, con i quali ha registrato 7 album. Ha anche pubblicato due album solisti, dal primo dei quali questa traccia e' tratta. Il suo e' un sound a meta' fra prog romantico e folk, molto orecchiabile e vicino al pop, caldo e melodico. Vale assolutamente la pena dare un ascolto almeno a questo gran pezzo.
Stefano Testa - La Ballata di Achab (Moby Dick) (da Una Vita Una Balena Bianca e Altre Cose, 1977) Se cercate "Stefano Testa" su Google vi uscira' il portale di una clinica di un certo dottore, il sito web di un DJ, ed il profilo di un CEO. Dello Stefano Testa musicista non c'e' traccia, o forse e' una di queste persone, o sono tutti la stessa persona. Meteora degli anni '70, il cantante, chitarrista e tastierista ricompare negli anni '10 con altri due album per un totale di tre pubblicazioni finora, tutte avvolte nel completo mistero. Il suo stile cantautoriale, chiaramente influenzato da De Andre', ma anche da band come Jethro Tull e Genesis, e' molto interessante ed abbastanza particolare, musica non troppo complicata e di facile assimilazione, una felice combinazione di prog e pop, con una particolare attenzione ai testi. L'album e' un concept sulle opere di Cesare Pavese, di cui vale sicuramente un ascolto solo per riassaporare l'atmosfera di quelle opere, e questa canzone ne e' un esempio perfetto.
Supertramp - The Logical Song/Goodbye Stranger (da Breakfast In America, 1979) Altra band a cavallo fra pop, prog, e volendo certe tendenze glam, i Supertramp hanno coniato uno stile riconoscibilissimo e a mio parere molto coinvolgente, una versione migliore dei Roxy Music. Meno ghirigori, meno rumorismi, meno fughe strumentali, la musica della band londinese e' diretta e concisa, catchy e ballabile, ma prog nell'impostazione, con un organo a dettare i tempi, solitamente in crescendo, una chitarra che si lancia in assoli mozzafiato non di facile esecuzione, ed un sax a colorare il tutto. 11 album all'attivo dal 1970 al 2002, i migliori lavori sono sicuramente quelli registrati negli anni '70, quando la componente progressiva era ancora evidente, ed infatti Breakfast In America ha venduto 18 milioni di copie. Consiglio il live a Parigi del 1980 se si vuole avere una buona summa della loro opera. Roger Hodgson canta e suona chitarra e tastiere, Rick Davies canta e suona le tastiere, John Helliwell e' il sassofonista, Dougie Thomson suona il basso e Bob Siebenberg la batteria.