I Comus sono una di quelle band misconosciute del vastissimo sottobosco folk-prog, ma sono probabilmente i più sperimentatori, i più acidi, i più sconvolgenti. Gli strumenti sono interamente acustici e al classico equipaggiamento rock si aggiungono violino e flauto che danno appunto un sapore bucolico alle canzoni, anche se il sound è estremamente acido e psichedelico. Lo stesso nome della band deriva dalla mitologia greca in cui il Komus era la divinità del caos, figlia di Bacco e Cerere, il che è tutto dire. Questo Komus si aggirava nei boschi alla ricerca di giovani vergini da violentare e uccidere, infatti la maggior parte delle canzoni di questo album parlano di inseguimenti e uccisioni compiute dal demone. Quindi cambia il concetto di "bosco" rispetto alle altre folk band in cui questo è visto come un ambiente fatato ed accogliente, pieno di personaggi bonari come gnomi e folletti. Per i Comus invece il bosco è un luogo maledetto, abitato da creature demoniache, in cui ci si perde e si rischia la vita e altro non è che la metafora delle paure irrazionali che popolano la mente di ogni uomo. La natura è quindi nemica dell'uomo, è anch'essa dilaniata e disperata, irrazionale e sconfortante. La band è composta da Roger Wootton, chitarrista e singer, leader e principale compositore, Glenn Goring alle chitarre e percussioni, Andy Hellaby al basso, Colin Pearson al violino, Rob Young al flauto e percussioni, la bravissima Bobbie Watson alla voce e percussioni. Come si può notare mancano le tastiere e la batteria, ed è questa la peculiarità del sound Comus: il pulsare del basso e percussioni tribali compongono il ritmo su cui si innestano gli intrecci di violino e flauto a dir poco spettacolari e sempre in perfetta intesa, cui fanno da contraltare le due chitarre e soprattutto le voci dei due fantastici cantanti. Roger canta in maniera volutamente grottesca, sembra sempre in gran sofferenza, e rappresenta il demonio che si aggira nei boschi straziato e lancinato, mentre la Watson impersonifica la vittima di turno, quindi i suoi sono sempre vocalizzi a dir poco agghiaccianti, che si incastrano alla perfezione con i rigurgiti bestiali del cantato maschile. Intanto violino e flauto rendono l'atmosfera cupa e macabra, lanciando l'ascoltatore in un trip lisergico che ben pochi gruppi sono in grado di riprodurre: questo album è un viaggio onirico dall'inizio alla fine, ogni canzone è esatta conseguenza della precedente, l'ambiente è spettrale, folle, nauseabondo e pieno di sangue. L'ultima traccia è l'unica che parla di una storia concreta, poichè narra di un folle in isolamento in continuo contrasto con le voci che sente dentro la sua testa, ancora impersonificate da Bobbie, in un crescendo isterico che fa accapponare la pelle. Non c'è molto altro da dire di un gruppo la cui fama si basa esclusivamente sull'album appena recensito (una reunion nel '74 non ha dato i frutti sperati) se non che consiglio vivamente l'ascolto di questo capolavoro senza farsi atterrire dalla bizzarria del sound: dopo un pò ti prende e ti trascina via in un vortice di sangue e fango.
venerdì 9 maggio 2008
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