Il prog odierno se confrontato con la produzione progressiva del passato perde clamorosamente, vuoi perchè è sempre più difficile scrivere qualcosa di originale, vuoi per il diverso spirito con cui oggigiorno si compone musica. Negli anni '70 sono nati gruppi che hanno saputo produrre musica progressiva sopraffina, sono convinto che mai saranno eguagliate quelle vette di classe. Eppure qualche eccezione c'è, esistono gruppi odierni che reggono bene il paragone con i grandi che furono e i Black Bonzo fanno parte di questo insieme. Originari della Svezia, i Black Bonzo pescano a piene mani dal passato ma riescono a risultare estremamente originali, non tanto per quanto riguarda la costruzione delle canzoni e le ritmiche adottate, ma circa le modalità di esecuzione: la voce acuta di Magnus Lindgren, la chitarra alla Brian May di Joakim Karlsson (che suona anche il flauto) e la batteria potente di Mikael Israelsson rendono il sound di questa band estremamente particolare. Completano la formazione Nicklas Åhlund alle tastiere e Anthon Johansson al basso. Quindi si tratta di composizioni che ricordano un gran numero di gruppi, quali Yes (un arpeggio di chitarra in The Well è uguale, ma proprio tale e quale, ad un arpeggio in Roundabout), Uriah Heep, Queen, Jethro Tull, Camel, ma con un sound diverso, più moderno, più potente ed aggressivo, che ricorda anche alcune band moderne come Spock's Beard e Flower Kings. L'album è un concept incentrato sul tema dell'Apocalisse, ma non esprime giudizi positivi o negativi, tenta piuttosto di indurre l'ascoltatore alla riflessione su quello che accadrà. Le atmosfere rispecchiano quest'impressione, i brani sono equamente divisi fra momenti cupi e malinconici ed altri più vivaci ed allegri, senza eccessi. Ogni brano si incastra alla perfezione nella scaletta decisa dalla band, non esistono momenti deboli o noiosi. L'unico difetto, se può essere considerato tale, è che il lavoro necessita di qualche ascolto prima di poter essere apprezzato. Si comincia con Thorns upon a crow, aggressiva e rockeggiante, con un gran riff di chitarra e parti corali curatissime, infatti tutti i musicisti partecipano ai cori, in perfetto stile Queen. Giant games è invece la traccia più moderna, quella che più ricorda i Flower Kings o gli Spock's Beard, mentre per i cambi di ritmo, le accelerate, le stoppate, le continue rincorse fra i vari strumenti potrebbe sembrare una canzone dei Gentle Giant rivisitata, molto bella. Yesterday's friends è la mia preferita per il piglio estremamente romantico che possiede: traccia solenne, comincia con note di chitarra acustica dolcissime, dopodichè i tamburi potenti danno il via ad una canzone stupenda, forse quella più stile seventies, che mette i brividi per il turbinio di emozioni che provoca, con un ritornello malinconico al massimo. The well è più rockeggiante, a metà fra Uriah Heep e Queen, con il cantato in falsetto e la sempre potente batteria. Intermission-Revelation song comincia con un flauto che non può non ricordare i Jethro Tull, ma poi si sviluppa indipendentemente come una quasi pop-song, calda e pacifica. Sulla stessa falsariga è Ageless door, che incute quasi un sentimento di speranza, allegra ed armonica. Iscariot ricorda ancora i Gentle Giant per il gran numero di umori che contiene. Conclude la title-track, minisuite che riassume nella miglior maniera quanto fatto sentire finora. Un album spettacolare ed inaspettato visti i tempi che corrono, il prog sembra in certi contesti più vivo che mai. La quantità di buona musica che questo genere può offrire è ancora tanta, sto solo aspettando che qualcuno, come i Black Bonzo, la scriva.
lunedì 19 gennaio 2009
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