lunedì 8 aprile 2024

Thy Catafalque - Vadak (2021)

Formati a Makó in Ungheria nel 1998 come duo composto da Tamás Kátai (tastiere, chitarra, basso, programmazione e voce) e János Juhász (chitarra e basso), il progetto diventa una one-man band quando Tamás si trasferisce ad Edimburgo 10 anni dopo, dopo 4 album registrati in coppia. Lasciato libero di comporre la propria idea di musica, Kátai rivoluzionera' il suond dei Thy Catafalque, portandolo da un black metal di seppur discreta fattura, ad un livello che spieghero' durante la descrizione di quest'album. Le note dalla loro pagina Bandcamp ci danno un assaggio di quest'idea: "Thy Catafalque è un’entità metamorfica in continua evoluzione, che mette in mostra un’ingegnosità musicale tanto illimitata quanto audace. Mentre i lavori prendono spunto dallo stile iniziale dei Thy Catafalque, i moderni istinti progressivi della mente di Tamás Kátai prendono il sopravvento, elevando i dischi oltre il regno del metal e creando un suono all'avanguardia che è molto più avanti rispetto al suo tempo."
L'umile genio dei Thy Catafalque, Tamás Kátai, abbandona ogni preconcetto imposto dalla tradizione. Intrecciando elementi provenienti da una vasta gamma di generi non correlati, dal jazz al pop al folk, crea magistralmente un suono eclettico che abbatte qualsiasi barriera o confine generico.
Una critica comune alla musica progressiva o d’avanguardia afferma che è troppo impegnativa, troppo clinica, troppo accademica, troppo autoindulgente. E se questa critica è di per sé un cliché un po’ pigro, ha comunque anche il pregio di essere spesso vera. La musica di Tamás Kátai non è meno ambiziosa, non meno abile dal punto di vista strumentale, e non meno sicura di sé, ma è in una qualche maniera piu' discreta, meno vistosa, meno fine a se' stessa.
Sebbene il lignaggio musicale più chiaro dei Thy Catafalque siano le band black metal della seconda generazione che si avventurarono in territori sempre più indipendenti dal genere alla fine degli anni '90 (in particolare Ulver), ci sono accenni a tutto, da Devin Townsend, Orphaned Land e Giant Squid, agli idiomi folk dell'Europa orientale e al prog espansivo di Yes o King Crimson, ad alcuni dei titani della jazz fusion degli anni '70 (come Return to Forever, Mahavishnu Orchestra, Miles Davis o Weather Report). Aggiungete a questa miscela un sacco di melodeath, post-punk, musica kosmische ed elementi industriali, e francamente vi trovereste di fronte ad un pasticcio terribile se non fosse per la capacità di Kátai di intrecciare queste cose, mettendo a dura prova la propria credibilità. Elementi disparati mescolati in un insieme senza soluzione di continuità, eppur dal suono naturale.

Quella dei Thy Catafalque è una musica posseduta da uno zelo poliglotta: un desiderio di parlare qualunque linguaggio musicale sia necessario per inseguire un sentimento particolare. Ciò significa che immergersi in un nuovo album dei Catafalque richiede un senso di fiducia, fiducia nell’integrità del processo, che consente all’ascoltatore dal cuore aperto di cavalcare la gioia selvaggia di ogni svolta e ritorno imprevisti. La traccia di apertura flirta con alcuni dei materiali più pesanti dell'album, mentre il ritornello si apre in un canto corale tonante e contagioso che ricorda i Paradise Lost nel periodo più pop. Gömböc si chiude con un breakdown pesante, completo di un assolo di basso gorgogliante, ma la sezione centrale ha dei bellissimi sintetizzatori che suonano come marimba o xilofono, con la programmazione della batteria così rapida che quasi confina con il breakbeat. La batteria in Vadak, sebbene chiaramente programmata, ha un suono abbastanza naturale.
Anche quando Kátai raggiunge sonorita' davvero pesanti, c’è una rapidità nella sua strumentazione che conferisce leggerezza di spirito anche all’intensità più estrema. La quarta canzone ne è un esempio particolare, aprendosi come una sorta di pezzo thrash melodeath prima di vagare più lontano. Il titolo della canzone si traduce come “La legge di conservazione dell’energia”, che è un modo perfetto per descrivere la musica dei Thy Catafalque in generale. Anche se le canzoni spaziano dal metal moderno a stili più inusuali, la caratteristica più notevole della musica di Kátai è la fluidità della sua energia. Tutti questi elementi musicali disparati sono mischiati in modo così fluido che anche se non puoi descrivere come sei arrivato dove sei, il viaggio sembra continuo.
Man mano che Vadak si sviluppa (e con ascolti ripetuti), l'architettura della sua durata di oltre un'ora diventa tangibile, con la prima metà dell'album che presenta molti dei suoi momenti più pesanti, coronati dalla mastodontica Móló, che rimane in uno spazio pesante ma si spinge verso l'esterno in modo concentrico, con onde pulsanti di sintetizzatori sempre più complessi e stratificati in modo che nel suo punto medio suoni come un'escursione particolarmente cosmica dei Tangerine Dream. La seconda metà dell'album si estende in territori ancora più avventurosi. Kiscsikó è un pezzo affascinante, basato su una melodia folk, con un ritmo rustico a due tempi e alcuni tocchi aggiuntivi ispirati, tra cui chitarra acustica, percussioni di xilofono e una sezione di fiati quasi in stile mariachi che riecheggia il motivo principale della chitarra, mentre A Kupolaváros Titka è un bellissimo pezzo di trip-hop urban folk/jazz i cui testi evocano il modernismo giocoso di uno scrittore come Italo Calvino. I testi riflettono sulla morte come fine della vita che accomuna tutti, ma dalla prospettiva dell'accettazione e della riflessione piuttosto che della rabbia o della negazione. Accostare l'inevitabile scorrere del tempo con una fantasia di metamorfosi in stile ovidiano potrebbe sembrare un modo per evitare verità spiacevoli, ma invece, l'impressione che ci da' è un qualche tipo di dolore consapevole. La voce dell'ospite Martina Veronika Horváth in tutto l'album fa da bellissimo contraltare alla frequente durezza di quest'ultimo, e colpisce con particolare ricchezza nelle ultime due canzoni dell'album. Vadak (Az Atváltozás Rítusai), il secondo dei due pezzi più lunghi dell'album, ripropone alcuni dei toni più pesanti che si erano ritirati nella seconda metà dell'album galoppando con una lucentezza prog annerita, ma si tuffa anche in una bellissima sezione centrale con violino e alcune linee di sassofono sovrapposte che sembrano ispirate dal Philip Glass Ensemble. Tutto si fonde perfettamente alla fine, con gli ultimi due minuti della canzone che ricordano gli Opeth quando fondano doom e musica da camera.
Vadak è il decimo album dei Thy Catafalque, tralasciando compilation ed EP, e come si addice ad un numero così significativo, è un album davvero degno di nota in una discografia piena di album degni di nota. Vadak è il mio album preferito dei Thy Catafalque ed anche uno dei più pesanti, con un numero elevatissimo di ospiti, contribuendo in numerosi modi alla varietà presente in questo lavoro. Vadak significa "Wildlings" in ungherese, e si rivela un titolo davvero appropriato per un album in sintonia con il mondo selvaggio, con molte canzoni che canalizzano la devozione pagana e l'interpretazione della natura e delle forze che la governano. Il disco si apre con Szarvas e Kátai non perde tempo nel trovare modi per sovvertire le aspettative dell’ascoltatore. Dopo una meravigliosa introduzione di synth, si puo' sentire un senso di anticipazione del groove pesante in cui entrerà da li' a poco la canzone, grazie ad un enorme muro di chitarre e a ritmi esplosivi. Il brano continua a cambiare ed a stravolgere le aspettative, con il contributo vocale di Martina Veronika Horváth (diventata una presenza fissa con la sua quarta collaborazione consecutiva) e del cantante dei Reason Gábor Dudás, nonché il primo di numerosi assoli di chitarra, interpretato da Breno Machado. Ci sono ritmi esplosivi, voci cantate e cantate con audacia e un sottile sintetizzatore: una piccolissima punta dell'iceberg che difficilmente ti prepara per la diversità sonora che verrà riprodotta in seguito. La seconda traccia, Köszöntsd A Hajnalt, suona molto epic o folk metal, grazie al riff pesante, alla forte voce solista di Horváth e al polistrumentista Lochrian Poem Andrei Oltean alla cornamusa. Tuttavia, questa canzone presenta ancora lo stile distinto di Kátai, particolarmente evidente nella sezione di synth, con l'assolo di cornamusa e l'assolo di chitarra di Machado che donano al brano qualcosa in più. Köszöntsd A Hajnalt ti spinge un po' più lontano nel mondo selvaggio dei Thy Catafalque con l'introduzione di voci più serene, evoca un'alba, con le leggere armonie vocali nell'intro e la batteria che risveglia tutte le anime a portata d'orecchio. E' un brano elegante e caldo, che non perde le tinte rock/metal più ruvide con una chitarra prominente e allo stesso tempo discreta. I tre brani successivi, Gömböc, Az Energiamegmaradás Törvénye e Móló, racchiudono perfettamente ciò che amo dei Thy Catafalque: ogni canzone inizia con un riff incredibilmente pesante, e poi ogni canzone diverge e si trasforma in qualcosa di completamente diverso. Gömböc è una tirata metal con doppia cassa, basso eclettico e chitarre trascinanti. C’è del lavoro melodico supremo, principalmente da parte delle chitarre, che fa davvero brillare questo brano. Az Energiamegmaradás Törvénye inizia con un riff thrash schietto ed è, fino a questo punto, una delle cose più pesanti che i Thy Catafalque abbiano mai registrato. Anche in questo caso Kátai prende quello che potrebbe essere un riff abbastanza semplice e lo modella, lo stravolge, lo trasforma in qualcosa di molto, molto più elaborato, ed è un processo incredibile. E questa è solo nella prima metà della canzone, visto che successivamente il suond si sposta verso un metal dal ritmo meno sostenuto, quasi industrial, e poi di nuovo verso qualcosa di vagamente simile ai Cure con chitarre pulite. Móló, nel frattempo, ha un riff dal ritmo più rapido (ma comunque incredibilmente pesante) sostenuto da un groove synth-wave, il quale cresce in modo significativo nella parte centrale della canzone, quando il ritmo prende una marcia in più e il cantante Gábor Veres fa la sua apparizione. Incredibilmente, l'ultimo terzo della canzone cambia nuovamente, accentuando ulteriormente i toni del synth, mentre ritorna il groove del primo terzo, arricchito da acuti vocali in stile Kavinsky, per poi concludere con un autentico vintage dark-wave. Móló è ricoperto di pesantezza metallica, ma modellato con ampie fasce di sintetizzatori. Si tratta di uno dei brani più lunghi degli ultimi dischi dei Thy Catafalque, è una raffica di dieci minuti di origine ultraterrena, tanto quanto tirata fuori dai cavernosi sotterranei della terra; una canzone con un piede nello spazio e l'altro sepolto appena fuori dal nucleo fuso del pianeta. Le cose prendono una piega diversa nelle due tracce successive. A Kupolaváros Titka è uno strano brano retrò, smooth-jazz che mi ricorda alcuni mood di Sunday Lunch di Carpenter Brut. Seguita da Kiscsikó (Irénke Dala), la quale ha un'atmosfera country-western galoppante e un ritmo che inizialmente mi ricorda Theme from Rawhide. Due brani che costituiscono un interessante diversivo. Piros-Sárga è una canzone fantastica, caratterizzata da un ritmo propulsivo, bassi funk, fiati, una varietà di strumenti a percussione e la tastiera caratteristica di Kátai; lavoro condito da una grande performance vocale di András Vörös. È pesante senza essere eccessivamente metal, ed è una perfetta sintesi del suono dei Thy Catafalque. La penultima traccia dell'album, Vadak (Az Átváltozás Rítusai), è probabilmente il coronamento dell'album. È simile nella struttura a Móló, nel senso che è suddivisa in tre parti distinte, che potrebbero facilmente reggersi da sole come tracce individuali. Il riff che alimenta il primo terzo della canzone è probabilmente il riff dei Thy Catafalque più pesante di sempre. Da qui la canzone si sposta verso sintetizzatori e archi lancinanti, sottolineando il terzo contributo vocale di Horváth con ampi assoli di violino e sassofono, prima di passare ancora una volta alla modalità black metal, con le urla annerite di Kátai che trasformano la traccia nella sua forma finale e furiosa. L'album si chiude con la bellissima ed introspettiva Zúzmara, una vecchia canzone rivisitata (estratta da Erika Szobája, l'album ambient del 2005) composta principalmente da pianoforte e alcuni pad di synth che forniscono l'accompagnamento alla migliore performance di Horváth. La sua voce eterea, multitraccia e armonica è accattivante, fornendo la chiusura perfetta per un album incredibile.
Ancora una volta Kátai crea una serie di tracce sperimentali selvagge che rimangono inclassificabili con elementi di vari stili metal, jazz, pop, prog, folk, techno, elettronica e qualsiasi altra cosa che si adatti perfettamente allo schema della sua musica. Mentre ricopre il ruolo di capo supremo e direttore musicale oltre a suonare chitarre, basso, sintetizzatori e voce, Kátai assembla un gruppo sorprendentemente ampio e diversificato di 16 musicisti che aggiungono un gran numero di stili vocali, chitarre, sassofoni, tromboni, tromba, violino, violoncello e tonnellate di strumenti etnici come il durum armeno, le tabla, i dumbek, il riq.
La discografia coerente e prolifica dei Thy Catafalque sembra migliorare sempre di più ad ogni album. Il processo di esplorazione di elementi musicali ultraterreni e la loro graduale integrazione in una base metal estrema solida ed incisiva è stato all'ordine del giorno per Tamás Kátai nell'ultimo quarto di secolo, ed è proprio quell'etica del lavoro in particolare che ha dato i suoi frutti nel lungo periodo.
È chiaro che Vadak è un album più immediato rispetto a tutti i suoi predecessori. Sebbene la pesantezza della sezione ritmica sia notevolmente più evidente, è evidente che Tamás voleva comunque rappresentare un approccio sfaccettato al suo modo di scrivere canzoni.
Agli inizi del 1900, il compositore ungherese Béla Bartok ridefinì la musica classica introducendo uno stile che mostrava un genio per la sintesi, fondendo le influenze popolari dei Carpazi con la musica classica dell'epoca. Naturalmente, alcuni critici da poltrona lo hanno scambiato per un eclettismo compiacente fine a se' stesso. In un modo in qualche maniera simile, il moderno Bartok del metal estremo, Tamás Kátai, è un maestro nella creazione di un suono eclettico che abbatte tutte le barriere di genere, fondendo metal d'avanguardia con elementi di jazz, folk, elettronica, e musica pop.
L'album propone un mix impareggiabile ed elegante di sapori diversi in un modo a dir poco spettacolare ed emozionante.

domenica 31 marzo 2024

giovedì 14 marzo 2024

Ciprì e Maresco - Cinico TV - Grazie Lia - Breve inchiesta su Santa Rosalia (1996)

Cinico TV, dei registi Ciprì e Maresco, era un programma che andava in onda a notte tarda su RaiTre nei primi anni '90. Ovviamente non ero a conoscenza della sua esistenza, essendo un fanciullo che la notte si preoccupava soprattutto di dormire, pero' alcuni sketch venivano riciclati dalla trasmissione in pre-serata Blob, programma che a casa mia si guardava molto, e quelli sketch mi sono rimasti ben impressi nella memoria, seppur durassero pochi minuti. Lo squallore, l'orrido, l'atmosfera sospesa nel tempo, i ruderi, le macerie architettoniche ed umane, le immagini in bianco e nero, tutto cio' era piacevole come un pugno nello stomaco, ma cosi' affascinante e magnetico. Non sono un critico cinematografico e non possiedo il linguaggio per definire un'opera cosi' diversa, straniante ed inquietante, quindi mi affidero' ad alcuni estratti per farvi capire di cosa si tratta, qualora non ne siate a conoscenza.

Se dovessi scegliere due nomi per dire chi, in questo caso nel cinema, ha avuto il merito di tirarne fuori una rappresentazione a dir poco precisa, seppur nella sua forma più surreale e post-apocalittica, senza dubbio direi che si tratta di Daniele Ciprì e Franco Maresco, la coppia di registi palermitani che ha avuto la straordinaria capacità di mettere nero su bianco – letteralmente – la Sicilia, tirandone fuori gli aspetti più disgustosi, miseri, veri e contraddittori. Ciprì e Maresco in poco più di vent’anni di lavoro insieme, non tenendo conto delle loro opere da singoli, hanno dato vita a un universo parallelo in cui si riversano tutte le cose che ogni giorno chi vive o ha vissuto in Sicilia sa che esistono, le riconosce, ma non saprebbe descrivere: hanno creato un luogo parallelo in cui si riuniscono le caratteristiche più archetipiche, antropologiche e fisiologiche, di questa isola disgraziata, senza nessuna necessità di filtrarne l’aspetto con qualche colore sgargiante da carretto siciliano. Hanno ripulito da canditi, lustrini e barocco l’isola dei ciclopi per restituirne un’immagine che si avvicina molto di più alla tradizione letteraria classica, quella di Pirandello e di Verga, piuttosto che a una cartolina di promozione turistica contemporanea.
Già a partire dal nome della serie si intuisce l’intento dei due registi palermitani, ovvero quello di mettere in scena, senza nessun freno inibitorio o edulcorante, una realtà fatta di personaggi osceni, disgustosi, reietti e dimenticati dal mondo che popolano i sottoboschi dell’isola delle arance e delle paste di mandorla, che si rivela così non per la sua gradevolezza folkloristica di tamburelli e marranzani ma per la sua spietata bruttezza, una mostruosità tanto disturbante quanto rivelatrice. La Sicilia di Cinico TV è infatti un distillato di disagio sociale, un insieme di ritratti talmente orripilanti da risultare sgradevoli alla vista, per come parlano, per quello che dicono, per il loro aspetto grottesco. Gli attori di questa serie sono spesso gli stessi che poi verranno utilizzati anche nel cinema dei due registi, e sono quanto di più verista che nemmeno De Sica avrebbe potuto ambire a tanto: personaggi ricorrenti ognuno caratterizzato da qualche malformità, sia fisica che mentale. Ed è qua che si attiva uno dei meccanismi rappresentativi più efficaci di Ciprì e Maresco, una strategia che sarà fondamentale nei loro film e nei loro documentari successivi, che non solo è in grado di mettere in scena i ritardi mentali, le malformazioni e le inettitudini peggiori – spesso legate al sesso e alla sua manifestazione più oscena e primitiva, ma anche alla religione – dell’essere umano nel modo più sincero e innovativo possibile ma è anche un modo incredibilmente efficace di mettere in scena questo aspetto della realtà.
Le domande che i registi pongono agli intervistati, in questo scenario surreale e diroccato, con un bianco e nero intenso e violento che rende tutto il paesaggio attorno una sorta di angolo metafisico abbandonato al degrado umano e ambientale, sono poste con una formula che diventerà proprio una cifra stilistica della coppia. Così come il racconto di questa tendenza all’approccio con la diversità fatta non di accoglienza e gentilezza ma di spietata sfacciataggine sarà anche il perno di un’estetica talmente assurda e repellente da diventare comica. E soprattutto, l’uso di una lingua sporca, fastidiosa, eccessiva.

Daniele Ciprì e Franco Maresco fanno irrompere sul piccolo schermo una galleria di soggetti altrettanto inquietante: in Cinico TV compaiono persone di una tipologia che il telespettatore non ha mai visto prima, un’umanità sottoproletaria e malconcia quant’altre mai, tirata fuori da chissà quali anfratti di Palermo e invitata a interpretare una rappresentazione grottesca della propria disgraziata esistenza.
L’uomo viene esposto da Ciprì e Maresco nella sua fragilità esaltata dalla seminudità (a torso nudo o in mutande), e l’atroce bassezza della condizione dei prescelti viene scarnificata dalla voce fuori campo di Maresco, che interroga e infierisce.
E allora vediamoli questi nostri fratelli così diversi da noi:
Giuseppe Paviglianiti, forse il più noto a causa del suo aspetto indimenticabile (ventre enorme e capelli unti), della mimica che assumeva quando emetteva (finti) peti dalla lunghezza e frequenza improbabili, e del suo meraviglioso tormentone “Certamente!”.
Pietro Giordano, non privo di capacità interpretativa e proprietà di linguaggio, il suo personaggio è consapevole di essere una nullità.
Rocco Cane, al secolo Marcello Miranda, non parla mai, è un frenastenico che quasi sempre si limita a stare in scena (spesso a occhi chiusi), salvo quando mima freneticamente atti sessuali.
Fortunato Cirrincione, incapace persino di pronunciare correttamente il suo nome.
Francesco Tirone, perennemente in tenuta da ciclista agonista, stralunato ma molto vispo nei dialoghi con la voce fuori campo.
Giuseppe Filangeri, ragazzo che vive in un mondo tutto suo dominato dalla religione (o meglio dei dogmi e della pratica religiosa), impersona sé stesso, e temo che non potrebbe fare altro.
Chiudo con i fratelli Abbate, Franco e Rosolino, che rispondono sempre in coro, con veemenza. Sono ossessionati dalla sessualità e si lagnano del fatto che le donne “provocano” perché hanno “tette, vergogna e culo” e non ce lo dovrebbero avere (quest’ultimo), e invece “ce l’hanno”.