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Il social network italiano che anticipò Facebook e fu cancellato per errore

Su Duepuntozero arrivarono a esserci centinaia di migliaia di giovani, della Lombardia e non solo: la più famosa era già Chiara Ferragni.

Chiara Ferragni è stata una delle prime blogger di moda al mondo, è tra le influencer più note a livello internazionale e la più seguita in Italia. Il racconto della sua carriera viene spesso fatto iniziare nel 2009, con l’apertura del blog “The Blonde Salad”, e il suo grande successo viene ricondotto a Instagram, ma Ferragni era diventata popolare online già molto prima, tra il 2005 e il 2006. «C’era questo sito su cui è iniziato tutto, quando avevo sedici, diciassette anni, che era Duepuntozero», ha raccontato in un podcast.

Duepuntozero era un social network che tra il 2004 e il 2009 divenne molto popolare tra i giovani italiani, soprattutto in Lombardia. Per molti versi anticipò Facebook, che negli Stati Uniti nacque nello stesso anno, ma anche Instagram, che sarebbe arrivato solo diversi anni dopo. Prima di essere cancellato per errore e sparire per sempre, arrivò ad avere mezzo milione di utenti e a essere il nono sito più visitato in Italia. L’avevano inventato due ragazzi milanesi, che ai tempi avevano 16 anni, facevano il liceo a Milano e non ci guadagnarono mai niente.

«Sicuramente Duepuntozero è stato precursore di Facebook e di tutto quello che è venuto dopo» ricorda Veronica Ferraro, che cominciò a usarlo molto presto, prima di aprire il blog di moda The Fashion Fruit. Oggi Ferraro è un’influencer con 1 milione e 400mila follower su Instagram e dice che una piccola parte iniziale del suo bacino d’utenti era nata proprio su Duepuntozero. «La dinamica era molto simile a quella di Instagram: ognuno aveva la propria pagina, poteva pubblicare le proprie foto – con certi limiti – e ricevere i like. Flickr, che permetteva di pubblicare foto in alta definizione, ha preso piede subito dopo ma per certi versi era più limitato, poi sono arrivati i blog. Sicuramente Duepuntozero è stato un inizio: Chiara [Ferragni] è nata così. Noi ci siamo conosciute lì e mi ricordo che capitava che le persone ci fermassero per strada».

L’idea di fare Duepuntozero venne a Martino Di Filippo, che allora era un liceale appassionato di informatica, tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004. Aprì il sito insieme a un amico, Andrea Turati: «io gestivo tutta la parte tecnica mentre lui, che allora faceva il pr per una discoteca ed era più estroverso, inizialmente si prese il compito di parlarne e farlo conoscere in giro», spiega Di Filippo. In quello stesso periodo negli Stati Uniti stava nascendo Facebook, ma sarebbero passati quattro anni prima che cominciasse a diffondersi in Italia. Allora i social network più usati dai giovani erano MSN, che però era prevalentemente una chat, e la piattaforma di profili e blog MySpace, nata nel 2003.

Tutto cominciò perché a Milano c’era un negozio, Amedeo D., che esiste ancora oggi, e che ai tempi era molto frequentato e amato dagli adolescenti. «Il sito di Amedeo D. aveva una chat», ha raccontato Di Filippo, «che era frequentata da qualche centinaio di ragazzi e ragazze di Milano, persone con cui parlavo online e che poi mi capitava di incontrare in alcuni luoghi di ritrovo il sabato pomeriggio». Era una chat di solo testo ma era stata realizzata in modo poco professionale, e gli bastò smanettare un po’ per trovare il modo di caricarci delle foto. Quando anche altri cominciarono a imitarlo la cosa sfuggì un po’ di mano, e il negozio fu costretto a intervenire e togliere questa possibilità.

Di Filippo creò quindi un sito parallelo che chiamò Amedeo D. Duepuntozero, dove gli utenti che usavano la chat del negozio potessero tornare a pubblicare le proprie foto. All’inizio il funzionamento era molto rudimentale: gli utenti mandavano a Di Filippo le foto via chat e lui le metteva sul sito. «Mi piaceva l’idea di avere un sito con le foto perché fino a quel momento mi capitava di parlare con tante persone online, ma di non riconoscerle quando le incontravo dal vivo, semplicemente perché non sapevo che faccia avessero» ha spiegato.

Poco dopo un avvocato del negozio gli scrisse intimandogli di cambiare nome alla piattaforma, che così divenne solo Duepuntozero.

A vederlo Duepuntozero ricorda moltissimo Facebook agli inizi, se non altro per l’azzurro usato e la scritta del logo. Quando Di Filippo disegnò il sito non aveva idea di cosa fosse Facebook (anche perché in quel momento non esisteva o era nelle primissime fasi di vita), ma questa somiglianza è meno assurda di quanto si possa pensare. Ai tempi infatti la tecnologia permetteva di fare siti con una struttura molto standard e di usare un numero molto ridotto di caratteri di scrittura: di effetti grafici più innovativi se ne poteva introdurre qualcuno, ma appesantivano di molto il funzionamento dei siti. L’azzurro e il blu inoltre sono colori neutri e rassicuranti, di gran lunga i più utilizzati sul web, sicuramente in quegli anni.

Gli utenti di Duepuntozero potevano costruire un proprio profilo fatto di nickname (prima di Facebook era impensabile usare il proprio nome e cognome online), informazioni personali e fotografie, e pubblicare dei post testuali come su un blog. Il numero di foto che si poteva caricare era limitato quindi per pubblicarne una nuova bisognava cancellarne una vecchia: inizialmente se ne poteva mettere solo una, poi col tempo si arrivò a 24. Si potevano aggiungere gli utenti alla propria lista di amici, ma non era obbligatorio che l’“amicizia” fosse reciproca, quindi di fatto era qualcosa di simile a un “follow” su Instagram. Si potevano lasciare commenti agli altri utenti e mettere i like alle foto, che però si chiamavano “fave”, dall’inglese favourite. Era possibile sapere se gli altri erano online e quando avevano fatto accesso al sito l’ultima volta, ma non esisteva una chat dove gli utenti potessero parlarsi in privato: tutti i commenti erano pubblici e anche i profili.

Il fatto che esistesse un modo per “seguire” gli altri permise a Di Filippo di introdurre una classifica degli utenti con più seguito: quello che veniva chiamato “rank” o “ranking”. È qui che Chiara Ferragni cominciò a distinguersi e, nel giro di un paio d’anni, a diventare molto conosciuta all’interno della community del sito: il suo profilo era sempre tra i primi. «Quando andavi su Duepuntozero in homepage trovavi una specie di bacheca con le attività dei tuoi amici in ordine cronologico: non c’era un algoritmo che decideva cosa mostrare», spiega Di Filippo. «Il grande seguito al profilo di Chiara Ferragni è nato nello stesso modo in cui qualcuno diventa popolare a scuola o in qualsiasi altro gruppo limitato di persone, senza che un algoritmo lo agevolasse: una volta arrivata tra i primi utenti della classifica la cosa si è autoalimentata. Devo dire però che io intervenivo un po’ sulla classifica di popolarità per evitare che fosse troppo sbilanciata».

Inizialmente, quando ancora era usato da poche centinaia o migliaia di persone, l’assistenza agli utenti e la moderazione dei contenuti veniva gestita dai due fondatori, ma poi altri conoscenti vennero coinvolti nel lavoro. Ogni foto infatti veniva approvata manualmente prima della pubblicazione e, proprio come accade con tutti i social network oggi, divenne necessario impostare dei criteri sulla base dei quali decidere cosa approvare e cosa no.

«Ci è capitato di tutto ovviamente, dal ragazzo che provava a pubblicare le foto della ex nuda, a chi scriveva insulti e chi pubblicava foto porno per divertimento», racconta Di Filippo. «C’erano molte foto di nudi femminili più o meno espliciti e ogni volta dovevamo decidere se approvarli o no: mi sembra che alla fine ci affidassimo molto al buon senso, sicuramente i capezzoli erano vietati».

Quando Duepuntozero cominciò ad avere centinaia di migliaia di utenti capitava che ci fossero anche 40mila persone connesse tutte insieme. Il server a cui si appoggiava il sito era di una società che li affittava a poche decine di euro l’anno garantendo traffico illimitato, ma che non aveva mai immaginato di trovarsi a dover gestire un sito simile. «Io ero giovane e non ero consapevole dell’attenzione che richiedeva un social network così trafficato», racconta Di Filippo. «La società che mi affittava il server mantenne la promessa del traffico illimitato e la cifra annuale, ma dovette dedicare un server intero solo a Duepuntozero per evitare problemi di performance».

Facebook cominciò a essere usato in Italia tra il 2007 e il 2008, ma questo non ebbe un impatto negativo su Duepuntozero perché erano di fatto due cose molto diverse. Su Facebook si andava per trovare i propri amici e rimanerci in contatto, mentre Duepuntozero era pensato per «farti gli affari degli altri e ritrovare la ragazza che avevi visto al bar il giorno prima». Da questo punto di vista era molto più simile a quello che è oggi Instagram.

Era molto conosciuto nel nord Italia e gli utenti di Milano non sono mai scesi sotto il 25 per cento del totale. Ma nei suoi ultimi anni si diffuse molto anche altrove: in ordine le città dove era più popolare dopo Milano erano Roma, Bergamo, Torino, Brescia, Genova e Napoli. Gli utenti erano studenti delle scuole superiori e dell’università: le date di nascita andavano dal 1985 al 1993. In meno di tre anni, tra il giugno del 2006 e il febbraio del 2009, Duepuntozero ebbe più di 66 milioni di visite e 1,6 miliardi di pagine viste: la durata media di una visita era di 24 minuti.

Il successo della piattaforma cominciò ad attrarre alcune imprese che volevano sfruttarlo per fare pubblicità, oltre ad alcuni locali milanesi che volevano farsi conoscere tra i giovani, ma non se ne fece mai niente. A un certo punto a Di Filippo arrivò una proposta dalla Manzoni, la concessionaria pubblicitaria del Gruppo Espresso. «Mi offrirono mezzo milione di euro per mettere i loro banner pubblicitari su Duepuntozero per un anno, ma io non accettai», racconta Di Filippo: «qualcuno provò anche a comprarlo, ma a me non è mai interessato guadagnarci dei soldi, lo facevo perché mi piaceva. Anche oggi che ho trent’anni passati e faccio un lavoro tecnico, continuo a dedicarmi alla gestione di community perché mi piace avere a che fare con gruppi di persone da motivare, con cui generare discussioni ed engagement».

Nel 2009 Di Filippo aveva 22 anni, stava finendo l’università e non aveva molta idea di come continuare a gestire un sito di quelle dimensioni. Quello che per lui era sempre stato un hobby cominciava a diventare un lavoro, che si aggiungeva allo studio e ad altri lavori. Decise di mettersi in società con alcune persone poco più grandi che in quegli anni si occupavano di organizzazione di serate a Milano, con l’idea che potessero aiutarlo a rendere tutto il lavoro più strutturato.

«Quando abbiamo provato a mettere in piedi questa società però sono nati i problemi che hanno portato alla fine di Duepuntozero», racconta. Un giorno, poco dopo aver messo online una nuova versione del sito che era stato quasi completamente riscritto, successe un pasticcio e una persona della società cancellò per errore tutte le copie del sito esistenti. Duepuntozero andò offline e Di Filippo si rese conto che riportarlo online avrebbe comportato moltissimo lavoro, così decise di abbandonare l’idea.

Col senno di poi, vedendo l’enorme successo di Facebook in quegli stessi anni, molte persone che conoscevano e usavano Duepuntozero si sono chieste cosa sarebbe potuto diventare se le cose fossero andate in maniera diversa. Indubbiamente Duepuntozero aveva alcune funzionalità estremamente innovative per quegli anni: l’attenzione alle foto e la possibilità di mettere i like per esempio erano molto insolite. Anche l’intuizione di inserire in homepage l’elenco dei prossimi compleanni degli amici arrivò su Duepuntozero prima che su Facebook.

Nel suo podcast Muschio Selvaggio, il rapper Fedez, marito di Chiara Ferragni e a sua volta utente di Duepuntozero da giovane, dà una sua versione della storia: «ha avuto nelle mani Facebook ed è riuscito a non guadagnare un cazzo. Ci vuole del talento» dice riferendosi a Di Filippo.

Citando questa frase, Di Filippo spiega che «nella maggior parte dei prodotti innovativi la quantità di cose copiate o riprese da altro è sempre maggiore rispetto a quella delle invenzioni: vale per tutto e anche per Duepuntozero. Però mi sento di dire che non sono in totale disaccordo sul fatto che Duepuntozero sia stato un Facebook prima di Facebook: la differenza sostanziale stava in come io l’ho vissuta. Non l’ho mai pensato come un business. E mi va anche bene che mi dicano che sono stato scemo a non guadagnarci, perché non era il mio obiettivo».



Articolo originale.

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I miliardari si stanno preparando all'apocalisse

I miliardari stanno comprando bunker di lusso e assumendo squadre di militari per sopravvivere al collasso della società che hanno contribuito a creare, ma per come ogni cosa che fanno, ci saranno conseguenze indesiderate.

In quanto umanista che scrive dell'impatto della tecnologia digitale sulle nostre vite, spesso vengo scambiato per un futurista. Le persone che mi vogliono assumere per le mie opinioni sulla tecnologia di solito non sono tanto interessate a costruire strumenti che aiutino l'umanità a vivere una vita migliore nel presente, sono piuttosto interessate ad identificare la prossima grande scoperta attraverso la quale dominare l'umanità in futuro. Di solito non rispondo alle loro richieste. Perché aiutare questa gente a rovinare ciò che resta dell'Internet, tanto meno la civiltà?
Tuttavia, a volte una combinazione di curiosità morbosa e vile denaro contante è sufficiente a portarmi su un palco di fronte all'élite tecnologica, dove cerco di dare loro un senso su come le loro attività stiano influenzando le nostre vite qui nel mondo reale. È così che mi sono ritrovato ad accettare l'invito rivoltomi da un gruppo misteriosamente descritto come "stakeholder ultraricchi", in mezzo al deserto.
Una limousine mi aspettava all'aeroporto. Quando il sole ha cominciato a calare all'orizzonte, mi sono reso conto di essere stato in macchina per tre ore. Che razza di gente guiderebbe così lontano dall'aeroporto per una conferenza? Poi l'ho visto. Su un sentiero parallelo vicino all'autostrada, come se ci corresse contro, un piccolo jet stava arrivando per un atterraggio su un aeroporto privato. Ovviamente.
La mattina dopo, due uomini in pile Patagonia abbinati vennero a prendermi su un golf cart e mi hanno condotto attraverso rocce e sottobosco in una sala riunioni. Mi hanno lasciato a bere il caffè in quello che pensavo fosse il mio camerino. Ma invece di essere cablato con un microfono e portato su un palco, il mio pubblico è venuto da me. Si sono seduti intorno al tavolo e si sono presentati: cinque tipi super ricchi – sì, tutti uomini – dai vertici del mondo degli investimenti tecnologici e degli hedge fund. Almeno due di loro erano miliardari. Dopo un po' di presentazioni, mi sono reso conto che non avevano alcun interesse per il discorso che avevo preparato sul futuro della tecnologia. Erano venuti per fare domande.
Hanno iniziato in modo abbastanza innocuo e prevedibile. Bitcoin o Ethereum? Realtà virtuale o realtà aumentata? Chi costruirà il primo computer quantistico, la Cina o Google? Alla fine sono entrati nel vero argomento di loro preoccupazione: Nuova Zelanda o Alaska? Quale regione sarebbe meno colpita dalla prossima crisi climatica? Da lì è solo peggiorato. Qual è la minaccia maggiore: il riscaldamento globale o la guerra biologica? Per quanto tempo si dovrebbe pianificare di poter sopravvivere senza un aiuto dall'esterno? Un rifugio dovrebbe avere una propria fornitura d'aria? Qual è la probabilità di contaminazione delle acque sotterranee? Infine, l'amministratore delegato di una società di intermediazione ha spiegato di aver quasi completato la costruzione del proprio sistema di bunker sotterraneo e ha chiesto: "Come faccio a mantenere l'autorità sulle mie forze di sicurezza dopo l'evento?" L'evento. Questo era il loro eufemismo per il collasso ambientale, i disordini sociali, l'esplosione nucleare, la tempesta solare, il virus inarrestabile o l'hacking globale dei computer che distrugge tutto.
Questa singola domanda ci occupò per il resto dell'ora. Sapevano che sarebbero state necessarie guardie armate per proteggere i loro complessi dai predoni e dalla folla inferocita. Uno si era già assicurato che una dozzina di marines avrebbero raggiunto il suo campo appena avesse dato loro il segnale. Ma come avrebbe pagato le guardie una volta che anche le criptovalute fossero state inutili? Cosa impedirebbe alle guardie di scegliere il proprio leader?


I miliardari hanno preso in considerazione l'utilizzo di speciali serrature a combinazione sull'approvvigionamento alimentare che solo loro conoscevano. O costringere le guardie a indossare colletti disciplinari di qualche tipo in cambio della loro sopravvivenza. O forse costruire robot che servano come guardie e lavoratori, se una tecnologia del genere potesse essere sviluppata "in tempo".
Ho provato a farli ragionare. Ho avanzato argomentazioni pro-sociali a favore del partenariato e della solidarietà come i migliori approcci alle nostre sfide collettive a lungo termine. Il modo per convincere le tue guardie a mostrare lealtà in futuro era trattarle come amiche in questo momento, ho spiegato. Non investire solo in munizioni e recinzioni elettriche, investi nelle persone e nelle relazioni. Alzarono gli occhi al cielo davanti a quella che doveva suonare per loro come una filosofia hippy.
Questo era probabilmente il gruppo più ricco e potente che avessi mai incontrato. Eppure eccoli qui, a chiedere consiglio a un teorico dei media marxista su dove e come configurare i loro bunker apocalittici. Fu allora che mi colpì: almeno per quanto riguardava questi signori, si trattava di un discorso sul futuro della tecnologia.
Prendendo spunto dal fondatore di Tesla Elon Musk che vuole colonizzare Marte, Peter Thiel di Palantir che vuole invertire il processo di invecchiamento, o gli sviluppatori di intelligenza artificiale Sam Altman e Ray Kurzweil che vogliono caricare le loro menti in dei supercomputer, si stavano preparando per un futuro digitale che aveva a che fare col trascendere del tutto la condizione umana piuttosto che con la creazione di un mondo migliore. La loro estrema ricchezza e i loro privilegi sono serviti solo a renderli ossessionati dall'isolarsi dal pericolo reale e presente del cambiamento climatico, dell'innalzamento del livello del mare, delle migrazioni di massa, delle pandemie globali, del panico nativista e dell'esaurimento delle risorse. Per loro, il futuro della tecnologia riguarda solo una cosa: fuggire da noi.
Queste persone una volta hanno inondato il mondo di piani aziendali follemente ottimisti su come la tecnologia potrebbe avvantaggiare la società umana. Ora hanno ridotto il progresso tecnologico a un videogioco che uno di loro vince trovando la via di fuga. Sarà Jeff Bezos a migrare nello spazio, Thiel nel suo complesso in Nuova Zelanda o Mark Zuckerberg nel suo metaverso virtuale? E questi miliardari catastrofisti sono i presunti vincitori dell'economia digitale, i presunti campioni del panorama aziendale di sopravvivenza del più adatto.
Cio' di cui mi sono reso conto è che questi uomini sono in realtà i perdenti. I miliardari che mi hanno chiamato nel deserto per valutare le loro strategie di bunker non sono i vincitori del gioco economico quanto piuttosto le vittime delle sue regole perversamente limitate. Più di ogni altra cosa, hanno ceduto ad una mentalità in cui "vincere" significa guadagnare abbastanza soldi per isolarsi dal danno che stanno creando guadagnando denaro in quel modo. È come se volessero costruire un'auto che va abbastanza veloce da scappare dal suo stesso gas di scarico.
Eppure questo desiderio di evasione dalla realtà - chiamiamolo The Mindset - incoraggia i suoi aderenti a credere che i vincitori possano in qualche modo lasciare indietro il resto di noi.
Mai prima d'ora gli attori più potenti della nostra società hanno pensato che l'impatto principale delle proprie conquiste sarebbe stato quello di rendere il mondo stesso invivibile per tutti gli altri. Né hanno mai avuto prima le tecnologie attraverso le quali inserire la loro visione nel tessuto stesso della nostra società. Il paesaggio è vivo di algoritmi e intelligenze che incoraggiano attivamente queste idee egoistiche e isolazioniste. Quelli abbastanza sociopatici da abbracciarle sono ricompensati con denaro e controllo sul resto di noi. È un circuito di feedback auto-rinforzante. Questo è un fenomeno nuovo.
Amplificato dalle tecnologie digitali e dalla disparità di ricchezza senza precedenti che offrono, The Mindset consente la facile esternalizzazione del danno agli altri e ispira un corrispondente desiderio di trascendenza e separazione dalle persone e dai luoghi che sono stati abusati.
Invece di dominarci per sempre, tuttavia, i miliardari in cima a queste piramidi virtuali cercano attivamente la fine del gioco. In effetti, come la trama di un blockbuster della Marvel, la struttura stessa di The Mindset richiede un endgame. Tutto deve risolversi all'uno o allo zero, al vincitore o al perdente, al salvato o al dannato. Le catastrofi reali e imminenti dall'emergenza climatica alle migrazioni di massa supportano questa mitologia, offrendo a questi aspiranti supereroi l'opportunità di interpretare il finale della loro vita. The Mindset include anche una certezza basata sulla fede nella Silicon Valley di poter sviluppare una tecnologia che in qualche modo infrangerà le leggi della fisica, dell'economia e della moralità per offrire loro qualcosa di persino migliore di un modo per salvare il mondo: un mezzo per sfuggire all'apocalisse che loro stessi hanno creato.
Quando mi sono imbarcato sul mio volo di ritorno per New York, la mia mente era sconvolta dalle implicazioni di The Mindset. Quali erano i suoi principi? Chi erano i suoi veri credenti? Cosa potremmo fare per resistergli, se non altro? Prima ancora di atterrare, ho pubblicato un articolo sul mio strano incontro, con un effetto sorprendente.
Quasi immediatamente, ho iniziato a ricevere richieste da parte di aziende che si occupavano del preparatore miliardario, tutti sperando che avrei fatto alcune presentazioni per loro conto ai cinque uomini di cui avevo scritto. Sono stato contattato da un agente immobiliare specializzato in fortezze a prova di disastro, una società che accetta prenotazioni per il suo terzo progetto di abitazioni sotterranee e una società di sicurezza che offre varie forme di "gestione del rischio".
Ma il messaggio che ha attirato la mia attenzione è arrivato da un ex presidente della camera di commercio americana in Lettonia. JC Cole aveva assistito alla caduta dell'impero sovietico, così come a quello che era stato necessario per ricostruire una società operaia quasi da zero. Aveva anche servito come padrone di casa per l'ambasciata americana e dell'Unione europea e aveva imparato molto sui sistemi di sicurezza e sui piani di evacuazione. "Hai sicuramente sollevato un polverone" apriva la sua prima e-mail. "È abbastanza accurato: i ricchi che si nascondono nei loro bunker avranno un problema con le loro squadre di sicurezza... Credo che tu abbia ragione con il tuo consiglio di 'trattare queste persone davvero bene, in questo momento', ma anche che il concetto potrebbe essere ampliato e credo ci sia un sistema migliore che darebbe risultati molto migliori".
Era certo che l'“evento” – una prevedibile catastrofe innescata dai nostri nemici, Madre Natura, o semplicemente dal caso – fosse inevitabile. Aveva fatto un'analisi SWOT – punti di forza, di debolezza, opportunità e minacce – e aveva concluso che prepararsi alla calamità richiedeva di prendere le stesse misure necessarie per prevenirne una. “Per coincidenza”, ha spiegato, “sto allestendo una serie di fattorie rifugio nell'area di New York. Queste sono progettate per gestire al meglio un "evento" e anche a beneficio della società come fattorie semi-biologiche. Tutte a tre ore di auto dalla città, abbastanza vicine da essere raggiunte quando succede".
Ecco un preparatore con nulla osta di sicurezza, esperienza sul campo e competenza in materia di sostenibilità alimentare. Credeva che il modo migliore per far fronte al disastro imminente fosse cambiare il modo in cui ci trattiamo l'un l'altro, l'economia e il pianeta in questo momento, sviluppando anche una rete di comunità agricole residenziali segrete e totalmente autosufficienti per milionari, sorvegliate da marines armati fino ai denti.
JC sta attualmente sviluppando due fattorie come parte del suo progetto di rifugio sicuro. Farm one, fuori Princeton, è il suo modello da esposizione e "funziona bene finché il personale delle forze dell'ordine funziona". La seconda, da qualche parte nel Poconos, deve rimanere un segreto. "Meno persone sanno dove sono questi luoghi, meglio è", ha spiegato, insieme a un riferimento all'episodio di Twilight Zone in cui i vicini in preda al panico irrompono nel rifugio antiaereo di una famiglia per via del nucleare. “Il valore principale del rifugio è la sicurezza operativa, soprannominata OpSec dai militari. Se e quando la catena di approvvigionamento si interrompe, le persone non avranno più cibo. Il Covid-19 ci ha dato un segnale forte quando le persone hanno iniziato a litigare per la carta igienica. Quando si tratterà di carenza di cibo sarà feroce. Ecco perché coloro che sono abbastanza intelligenti da investire in questo tipo di progetti devono essere furtivi".
JC mi ha invitato nel New Jersey per vedere la cosa dal vivo. «Indossa gli stivali», mi ha detto. "Il terreno è ancora bagnato." Poi ha chiesto: "Tu spari?"
La fattoria stessa fungeva da centro ippico e struttura di addestramento tattico oltre ad allevare capre e polli. JC mi ha mostrato come impugnare e sparare con una Glock ad una serie di bersagli esterni a forma di cattivi, mentre si lamentava della senatrice Dianne Feinstein la quale aveva limitato il numero di colpi che si potevano inserire legalmente in un caricatore per la pistola. JC sapeva il fatto suo. Gli ho chiesto di vari scenari di combattimento. "L'unico modo per proteggere la tua famiglia è con un gruppo", ha detto. Questo era davvero il punto centrale del suo progetto: riunire una squadra in grado di ripararsi sul posto per un anno o più, difendendosi anche da chi non si era preparato. JC sperava anche di formare i giovani agricoltori all'agricoltura sostenibile e di assicurare almeno un medico e un dentista per ogni località.
Sulla via del ritorno all'edificio principale, JC mi ha mostrato i protocolli di "sicurezza a più livelli" che aveva appreso durante la progettazione delle proprietà dell'ambasciata: una recinzione, segnali di "vietato sconfinare", cani da guardia, telecamere di sorveglianza... tutto intesi a scoraggiare confronti violenti. Si fermò per un minuto mentre fissava il vialetto. "Onestamente, sono meno preoccupato per le bande armate rispetto alla donna in fondo al vialetto che tiene in braccio un bambino e chiede cibo". Si fermò e sospirò: "Non voglio trovarmi in quel dilemma morale".
Ecco perché la vera passione di JC non era solo quella di costruire alcune strutture isolate e militarizzate per i milionari, ma di creare prototipi di fattorie sostenibili di proprietà locale che potessero essere modellate da altri e alla fine aiutare a ripristinare la sicurezza alimentare regionale in America. Il sistema di consegna "appena-in-tempo" preferito dai conglomerati agricoli rende la maggior parte della nazione vulnerabile a una crisi minore come può essere un'interruzione di corrente o dei trasporti. Nel frattempo, la centralizzazione dell'industria agricola ha lasciato la maggior parte delle aziende agricole completamente dipendenti dalle stesse lunghe catene di approvvigionamento dei consumatori urbani. "La maggior parte degli allevatori di uova non può nemmeno allevare polli", ha spiegato JC mentre mi mostrava i suoi pollai. "Comprano giovani galline. Io ho dei galli."
JC non è un ambientalista hippy, ma il suo modello di business si basa sullo stesso spirito comunitario che ho cercato di trasmettere ai miliardari: il modo per impedire alle orde affamate di assaltare i cancelli è procurargli ora la sicurezza alimentare. Quindi, per 3 milioni di dollari, gli investitori non solo ottengono un luogo di massima sicurezza in cui superare la peste in arrivo, la tempesta solare o il crollo della rete elettrica. Ottengono anche una partecipazione in una rete potenzialmente redditizia di franchising di fattorie locali che potrebbero ridurre la probabilità di un evento catastrofico in primo luogo. La sua attività farebbe del suo meglio per garantire che ci siano il minor numero possibile di bambini affamati al cancello quando arriverà il momento di chiuderlo.
Finora, JC Cole non è stato in grado di convincere nessuno a investire in American Heritage Farms. Ciò non significa che nessuno stia investendo in tali schemi. È solo che quelli che attirano più attenzione e denaro generalmente non hanno queste componenti cooperative. Sono più per le persone che vogliono andare via da sole. La maggior parte dei preparatori miliardari non vuole dover imparare ad andare d'accordo con una comunità di agricoltori o, peggio, spendere le proprie risorse finanziando un programma nazionale di resilienza alimentare. La mentalità che richiede rifugi sicuri è piu' preoccupata ad evitare i dilemmi morali puttosto che a prevenirli.
Molti di coloro che cercano seriamente un rifugio sicuro assumono semplicemente una delle numerose società di costruzioni per prepper per sotterrare un bunker prefabbricato rivestito di acciaio da qualche parte in una delle loro proprietà. La Rising S Company in Texas costruisce e installa bunker e rifugi contro i tornado per un minimo di $ 40.000 per un nascondiglio di emergenza di 8 per 12 piedi fino alla serie di lusso "Aristocrat" da $ 8,3 milioni, completa di piscina e pista da bowling. L'impresa originariamente si rivolgeva alle famiglie che cercavano rifugi temporanei per le tempeste, prima di entrare nel business dell'apocalisse a lungo termine. Il logo dell'azienda, completo di tre crocifissi, suggerisce che i loro servizi sono più orientati verso i preparatori evangelisti cristiani negli stati repubblicani d'America piuttosto che verso i noti tecnologici miliardari che giocano agli scenari fantascientifici.
C'è qualcosa di molto più stravagante nelle strutture in cui la maggior parte dei miliardari - o, più precisamente, aspiranti miliardari - investono effettivamente. Una società chiamata Vivos sta vendendo appartamenti sotterranei di lusso in depositi di munizioni della guerra fredda convertiti, silos missilistici e altri luoghi fortificati in tutto il mondo. Come i resort in miniatura della Club Med, che offrono suite private per singoli o famiglie e aree comuni più ampie con piscine, parchi giochi, cinema e ristoranti. I rifugi ultra-elite come l'Oppidum nella Repubblica Ceca affermano di soddisfare la classe dei miliardari e prestano maggiore attenzione alla salute psicologica a lungo termine dei residenti. Forniscono l'imitazione della luce naturale, una piscina con un giardino simulato illuminato dal sole, una cantina e altri servizi per far sentire i ricchi a casa.
Ad un'analisi più approfondita, tuttavia, la probabilità che un bunker fortificato effettivamente protegga i suoi occupanti dalla realtà della, beh, realtà, è molto ridotta. Innanzitutto, gli ecosistemi chiusi delle strutture sotterranee sono incredibilmente fragili. Ad esempio, un giardino idroponico chiuso e sigillato è vulnerabile alla contaminazione. Le fattorie verticali con sensori di umidità e sistemi di irrigazione controllati da computer stanno benissimo sui piani dei palazzi aziendali e sui tetti delle startup della Bay Area; quando una tavolozza di terriccio o una fila di colture va storta, può essere semplicemente estirpata e sostituita. Il giardino dell'apocalisse sigillato ermeticamente non consente tali ripieghi.
Solo le incognite conosciute sono sufficienti per deludere ogni ragionevole speranza di sopravvivenza. Ma questo non sembra impedire ai ricchi preparatori di provarci. Il New York Times ha riferito che gli agenti immobiliari specializzati in isole private sono stati sopraffatti dalle richieste di informazioni durante la pandemia di Covid-19. I potenziali clienti chiedevano anche se c'era abbastanza terra per fare un po' di agricoltura oltre a installare una pista di atterraggio per elicotteri. Ma mentre un'isola privata può essere un buon posto per aspettare la fine di una piaga temporanea, trasformarla in una fortezza oceanica autosufficiente e difendibile è più difficile di quanto sembri. Le piccole isole dipendono totalmente dalle consegne aeree e marittime per i beni di prima necessità. I pannelli solari e le apparecchiature di filtraggio dell'acqua devono essere sostituiti e sottoposti a manutenzione a intervalli regolari. I miliardari che risiedono in tali luoghi sono più, non meno, dipendenti da catene di approvvigionamento complesse di quelli come noi radicati nella civiltà industriale.
Sicuramente i miliardari che mi hanno fatto andare in mezzo al deserto per un consiglio sulle loro strategie di uscita erano consapevoli di queste limitazioni. Potrebbe essere stato tutto una specie di gioco? Cinque uomini seduti attorno ad un tavolo da poker, ognuno dei quali scommetteva che il suo piano di fuga fosse il migliore?
Ma se fosse stato solo per divertimento, non avrebbero chiamato me. Avrebbero chiamato l'autore di un fumetto sull'apocalisse zombi. Se avessero voluto testare i progetti dei loro bunker, avrebbero assunto un esperto di sicurezza della Blackwater o del Pentagono. Sembravano volere qualcosa di più. Il loro linguaggio andava ben oltre le questioni di preparazione alle catastrofi e sfiorava la politica e la filosofia: parole come individualità, sovranità, governo e autonomia.
Questo perché non erano le loro effettive strategie di bunker che ero stato convocato a valutare tanto quanto la filosofia e la matematica che stavano usando per giustificare il loro impegno nel cercar di fuggire. Stavano elaborando quella che ho chiamato l'equazione dell'isolamento: potevano guadagnare abbastanza soldi per isolarsi dalla realtà che stavano creando guadagnando soldi in questo modo? C'era qualche giustificazione valida per sforzarsi di avere un tale successo da poter semplicemente lasciarsi alle spalle il resto di noi, apocalisse o no?
O era davvero questa la loro intenzione da sempre? Forse l'apocalisse non è qualcosa a cui stanno cercando di sfuggire, forse è solo una scusa per realizzare il vero obiettivo di The Mindset: elevarsi al di sopra dei comuni mortali ed eseguire la strategia di uscita definitiva.

Articolo originale.

sabato 10 settembre 2022

martedì 30 agosto 2022

giovedì 25 agosto 2022

Tom Moto - Allob Allen (2014)

I Tom Moto sono una band di Pisa composta da Marco Calcaprina alla tromba, al trombone ed al synth, Giulio Tosi al basso ed alla chitarra e Juri Massa alla batteria. Descrivono il loro suono come una miscela di 20% jazz, 25% punk, 20% funk, 20% metal, 15% progressive e 100% spazzatura. Il loro suono e' carico di groove, utilizzando elementi noise con distorsione sulla tromba e sul basso, e presenta cavalcate per lo piu' strumentali in una miscela di stili diversi grazie alla base jazz-funk, richiami crimsoniani, math rock e punk, sempre sperimentale ed aggressivo. Sulla solida base ritmica costruita dal basso e dalla batteria, la tromba ed il sintetizzatore sono liberi di spaziare e creare vaghe melodie, accompagnati dalle sporadiche voci del duo Belle de Mai, ovverosia Alice Casarosa e Irene Rometta. Il lavoro e' composto da 6 brani senza soluzione di continuita', con durate che variano dai 7 ai 16 minuti, per un'ora totale di musica fluida e mai noiosa; c'è un groove heavy in continua evoluzione che lo rende una gioia da ascoltare dall'inizio alla fine, ogni ripetizione rivela qualcosa di nuovo che l'ascoltatore potrebbe non aver mai sentito prima.

Musica incandescente, figlia imbastardita di tempi incerti e dissonanti, bolla di contrasti e sincretismo, contrapposizioni e miscele sperimentali, proposta colta ed impegnata, quella del secondo album dell'insolito trio pisano è musica che dista anni luce dall'intrattenimento leggero; jam infinita nella gestazione, arte per l'arte, gioco concettuale a tratti deragliante, elaborato scherzo che rastrella spunti di varia estrazione, stille d'avanguardia mutuate dal jazz, dalla contemporanea, dal neoclassicismo, "Allob Allen" assembla lunghe, estenuanti tracce strumentali che richiamano Primus e Stravinskij, in mutanti movimenti mentali sì autocelebrativi, ma capaci di offrire preziosi momenti di inconsueta, stravagante alterità. Molto lontani dal prog convenzionale, il gruppo giunge semmai a travalicarne i confini già fluidi affidando l'impervio compito a basso, batteria e tromba elettrica, unici - o quasi - interpreti di un esteso soundtrack immaginario, sinistro accompagnamento di un film inesistente, soggetto solo abbozzato ancora privo di sceneggiatura. Operazione intrigante, non così fine a sé stessa come l'intento parrebbe suggerire, ipotesi di partenza per un futuribile sviluppo laterale di disarmonia sghemba, l'album reimpasta ritmi sbilenchi, anfratti catatonici, suoni acidi e stridenti, per produrre un effetto tanto stordente quanto obliquamente ammaliante: musica che sembra dapprima respingere, ma che finisce quasi inevitabilmente per attrarre a sé, se le si concede la possibilità di insinuarsi tra le difese del sentire comune.

Il trio dei Tom Moto si forma nel 2006 a Pisa, e nel 2008 pubblica l'album d'esordio “Junk” (visto come l’unione tra le tre parole "jazz", "punk" e "funk", ma ovviamente anche il significato letterale "spazzatura"), con il quale vince i Progawards 2008 nella categoria Best Debut Album, poi l’anno successivo conquista il massimo piazzamento nella XIII rassegna di Musica Diversa Omaggio a Demetrio Stratos, per poi sciogliersi e riformarsi ad inizio 2013 e registrare l'album in questione in una sessione durata appena tre giorni. Una band particolare, con un nome altrettanto particolare, ispirato dal romanzo di Charles Bukowski dal titolo “Post Office”. Il senso dell’arte musicale da loro espresso è decisamente spiccato e poliedrico.

C’è tanta atmosfera, in questo ritorno sulle scene dei Tom Moto. Hanno voluto ribattezzare il loro genere post-prog, ma un po’ tutti hanno riconosciuto una vera e propria svolta psichedelica, dove la tromba spesso effettata narra di strade sempre più tortuose, che se parlassero proferirebbero parole isteriche.

Apre Ampullaria, dove la ritmica ricorda quella dei Gentle Giant, ma questa forse è mia deformazione professionale. Vi piace stordirvi di controtempi? I Tom Moto non scherzano! Vi piacciono le suite? Calcamoto è li per voi! Quasi diciassette minuti di tutto un po’, compresi cambi umorali repentini. Ottima Esenia Foetida, qui la tromba gioca un ruolo più incisivo, performance di melodie anche orecchiabili. La band toscana qui sembra avere una nuova visione delle proprie capacità compositive. Più oscura XXL, penetrante e comunque sempre disturbata, anche nell’introspezione, e’ il lavoro del basso a rendere il tutto molto nervoso, con un canto gregoriano nel finale che varia con estrema naturalezza in una specie di vivace ritmica popolare est-europea che confluisce nella successiva D P, dove ritorna prepotentemente l’ordinata confusione dell’esordio. Quest’ultima si era sentita già nella parte centrale dell’iniziale Ampullaria, preceduta da un incedere lento, prima che la cavalcata da nervoso pedinamento tipica delle vecchie pellicole dei noir europei prendesse definitivamente avvento. Aprono il brano D P vocalità in stile shamano, al confine del teatro della voce, la superficialità non è di questi paraggi, mentre il tutto si conclude con Allob Allen, cavalcata progressiva e granitica, che comincia col vecchio rumorismo ritrovato, salvo poi galleggiare nella psichedelia più densa grazie anche all’uso della chitarra nella parte di mezzo del pezzo, finendo con un'ultima rincorsa ipercinetica a suon di tromba.

A suo tempo erano stati nominati i nuovi Mr. Bungle, adesso, a parte i riferimenti prima riportati, non si può che guardare alle band ultimamente uscite per la Lizard, la quale dimostra che in Toscana deve esserci qualcosa di strano nel cibo o nell’aria che altera la chimica mentale dei musicisti, capaci di coniugare oggettiva perizia strumentale con soluzioni musicali che possono anche non piacere a qualcuno, ma non si può negare che sia un modo originale di affrontare dei sentieri non ancora del tutto battuti. Forse occorreranno diversi ascolti per assimilare questo lavoro, ma sembrerebbe davvero valerne la pena.

I Tom Moto sono fuori della bolla della “convenzionalità”, visto che al contrario “Allob Allen” si legge “Nella Bolla”, e con le loro evoluzioni musicali caratterizzate da sonorità ossessive e ricercate portano l’ascoltatore ad entrare “nella <loro> bolla” sonora.

lunedì 22 agosto 2022

giovedì 4 agosto 2022

Ultimo giorno in Messico

Meghan si stava godendo la leggera brezza di fine settembre, mentre sedeva ai tavolini di un bar di Città del Messico, sorseggiano un tequila sunrise. Nonostante la città asfissiante ed il caldo della Indian summer settembrina, quella sera si stava molto bene fuori. Decide di provare un locale, magari bere un paio di cocktail e ballare un po’, prima di ritirarsi nella sua camera d’albergo per concedersi qualche ora di sonno, d’altronde il volo che l’avrebbe riportata ad Omaha la mattina dopo partiva molto presto. Passeggia senza meta per le strade trafficate e caotiche; mille voci, mille suoni, mille colori e mille odori permeano l’ambiente intorno a lei, mentre le ombre cominciano ad allungarsi. Quella vacanza messicana in solitaria era stata piena di impegni ed eventi, fra musei, rovine Maya e Azteche, visite a varie riserve naturali, escursioni oceaniche con barriere coralline e squali balena, posticini di mare per gite mordi e fuggi, e in pratica non aveva neanche avuto il tempo di sedersi un attimo ed assaporare il momento. Ora finalmente poteva fare due passi, perdersi nei suoi pensieri e godersi le piacevoli sensazioni che solo una vacanza riuscita in tutto e per tutto può darti. Aveva lavorato sodo ed aveva rinunciato a parecchi piaceri per permettersela, ma era un’esperienza che voleva fare, era una storia che voleva avere in repertorio, lei

ragazza semplice del Nebraska, con il fidanzato conosciuto alla scuola superiore che poi sarebbe diventato suo marito e padre dei suoi figli. Peccato che quel ragazzo apparentemente impeccabile si sia poi rivelato un violento, e per fortuna era riuscita a troncare con lui prima del matrimonio. Tutte le sue amiche le avevano detto di non andare a passare un mese in Messico, stava solo compensando alla delusione del matrimonio naufragato, stava buttando un sacco di soldi, e una ragazza sola in vacanza sarebbe sicuramente sembrata una poco di buono, e tutti gli uomini avrebbero approfittato di lei. Ma Meghan era stata inamovibile e non se ne era pentita neanche per un attimo. A proposito, quegli uomini dai quali le sue amiche l’avevano messa in guardia non erano pervenuti. Non le sarebbe dispiaciuto avere intorno un bel giovanotto messicano che fa errori di grammatica quando parla inglese, magari di quelli che insistono un po’ dopo il primo rifiuto, così diversi dai bianchi americani ai quali era abituata, completamente ignari dell’esistenza di una cosa chiamata arte del corteggiamento. Ma musei ed escursioni guidate non sono esattamente luoghi per incontri romantici, è anzi più probabile trovare famiglie e pensionati, ed il massimo dell’attenzione che si può ricevere è uno sguardo languido di qualche frustrato padre di famiglia. Non era partita con l’intenzione di trovare un partner sessuale o di buttarsi nella movida messicana, ma se ciò fosse successo non le sarebbe dispiaciuto.

Una mamma richiama suo figlio, che si era fermato ad ascoltare la musica proveniente da un locale, musica stile mariachi. Il piccolo José amava quella musica ma sua madre aveva fretta, dovevano passare da un altro negozio alimentari prima di poter andare a casa a preparare la cena, quindi esorta il ragazzino ad affrettarsi, senza troppo tatto. Meghan ascolta il dialogo quasi per caso, ed alla fine di esso anche lei viene catturata dalla bellezza della musica dei chitarristi latini, quindi decide di entrare in quel locale. La musica non era una registrazione, c’era in effetti un gruppo di sei musicisti con trombe e chitarre a deliziare la poco nutrita platea, seduta ai tavolini neri di un bar buio ed umido, ma in qualche maniera accogliente ed ospitale. Il barista espone un gran sorriso e le porge un cicchetto di tequila, senza neanche chiederle se lo voleva. Meghan lo trangugia, ordina un margarita e si siede sola ad un tavolino. Raramente in vita sua era stata più felice.

Con il passare delle ore il locale si riempie, una seconda band è salita sul palco, e giovani attraenti si stanno scatenando nelle loro danze folkloristiche. Meghan è ancora al suo tavolino, un po’ in disparte, semplicemente divertita nell’osservare il susseguirsi degli eventi all’interno del bar. Ed è anche un po’ ubriaca. Ha notato un giovanotto seduto al bancone del bar, il quale si è girato più di una volta a osservarla, mentre lei muoveva la testa ad un angolo tale da far sembrare che non lo stava guardando, anche se riusciva comunque a vederlo con la coda dell’occhio. A quel punto sopraggiunge un cameriere, anzi l’unico cameriere in servizio, che le porge un altro margarita, gentile omaggio del giovanotto al bancone. Meghan è esterrefatta, non aveva idea che gli uomini sono ancora capaci di tali gesti di galanteria, una cosa che dalle sue parti non sarebbe mai accaduta. Decide di dare al ragazzo una chance, e gli si avvicina sorridendo. Lui si chiama Manuel, è di modi educati e gentili, ed il suo inglese è impeccabile. I due parlano per qualche tempo, anche se Meghan ha perso un po’ di lucidità, poi si lanciano in pista a ballare la salsa. Manuel sembra invece lucidissimo e appena ne ha la possibilità rischia un bacio, al quale Meghan risponde un po’ sorpresa ma non troppo. La passione sembra prenderla e quello che sembrava un bacino dato al volo si trasforma in un bacio lungo ed appassionato. Si sente avvolgere dalla spirale di emozioni che la prossimità al corpo sensuale e le maniere esperte di Manuel sembrano provocarle, e cade completamente preda del suo magnetismo. Non passa molto tempo che il giovane le propone di andare a casa sua, ma Meghan questa volta è davvero colta di sorpresa e si rifugia in bagno. Per quanto desiderasse fortemente Manuel, sa, sente, che non è la scelta giusta da fare. Innanzitutto la logistica: aveva un aereo alle 7 del mattino e davvero non poteva permettersi di finire chissà dove in una città così sconfinata; secondo, per quanto quel ragazzo sembrasse completamente innoquo, lo aveva comunque conosciuto non più di due ore prima. In cuor suo non se la sente di prendere una decisione così rischiosa, e un po’ vigliaccamente, sgattaiola fuori dalla porta usata dal personale del bar per buttare la spazzatura, e in breve raggiunge il suo albergo. Il pomeriggio successivo arriva nella sua Omaha che, nonostante tutto, un po’ le era mancata.

Qualche giorno dopo Meghan è nella sala di attesa di un dermatologo, delle strane bolle le erano comparse sulle pareti della bocca e sulle labbra. Probabilmente era allegica a qualche ingrediente esotico di qualche piatto messicano che aveva consumato in vacanza. Ma dopo la visita il dottore, una volta ottenuti i risultati, la chiama in disparte in una stanzetta e le dice di sedersi. Le chiede se ultimamente ha avuto rapporti sessuali o altre interazioni romantiche, e Meghan racconta cosa era successo l’ultimo giorno in Messico. Il dottore le dice che aveva una forte allergia alla carne umana, e le bolle che le si erano formate erano dovute al contatto con residui di carne umana che qualcuno le aveva passato oralmente. Manuel prima di baciare Meghan aveva pensato di fare un rapido spuntino.

 

venerdì 29 luglio 2022

venerdì 15 luglio 2022

venerdì 8 luglio 2022

mercoledì 29 giugno 2022

mercoledì 22 giugno 2022

mercoledì 15 giugno 2022

venerdì 10 giugno 2022

martedì 7 giugno 2022

lunedì 6 giugno 2022

lunedì 30 maggio 2022

sabato 21 maggio 2022

venerdì 13 maggio 2022

domenica 8 maggio 2022

sabato 30 aprile 2022

Palass - Private Property (1981)

Album raro e sconosciuto ai piu', pubblicato solo in Portogallo e spesso catalogato come appartanente al genere metal per motivi inspiegabili, e' un lavoro ottimo, eclettico, orecchiabile e movimentato. Si tratta per lo piu' di heavy prog con leggere tinte sinfoniche e blues, tendente al rock'n'roll per tutta la durata del disco, che non raggiunge neanche i 40 minuti, e che presenta canzoni concise e catchy, regolari nella struttura, le cui poche variazioni sono rappresentate dagli assoli di chitarra e dai piu' rari soli di tastiera. Seppur non vi sia molta variazione all'interno delle canzoni, ve n'e' molta all'interno dell'album: i Palass riescono nel difficile compito di scrivere 8 canzoni che non si assomigliano per niente fra di loro, ma che rimangono comunque circoscritte nello stesso stile musicale. E se vi piace quello stile musicale, vale a dire l'heavy prog, quest'album e' un gran sentire. E' persino difficile scegliere una canzone che prevalga sulle altre, o individuarne una un po' piu' debole.

I Palass vengono da Charleroi, Belgio, ed oltre al lavoro in questione hanno prodotto un altro album, completamente heavy metal, verso la fine degli anni '80; per il resto non si sa molto, e' una band alquanto avvolta nel mistero. La formazione e' composta da Daniel Duvieusart alla voce, molto alta e particolare, Williams Duncker al basso, Christian Hance alla batteria, Jean-Claude Manderlier alla prima chitarra, Thierry Servais alla seconda e Bernard Cambier, che suona le tastiere.

L'attacco del disco e' affidato alla title-track: spicca subito la voce pulita, cristallina, angelica di Daniel, a meta' fra Jon Anderson e David Byron, e l'indovinata ritmica su cui poggia l'intero brano, il quale ha giusto bisogno di qualche ricamino fornito dalle chitarre e dalle tastiere; canzone veloce (tutte le tracce del disco variano fra i tre ed i sei minuti) e piacevole, chiusa da un ottimo solo di chitarra. Si prosegue con Black Tree, una delle canzoni migliori, aperta da strimpellate di chitarra che ne definiscono lo stile, quasi danzereccio, accompagnate dall'ottima voce e da un bel refrain di basso; ancora una volta traccia breve e concisa, rapida ed allegra, con indovinati spunti di tastiere ed un altro assolo di chitarra, stavolta a meta' canzone. Si arriva cosi' alla prima traccia lunga, che si apre ricordando vagamente una ballad, ma per poi prendere ritmo e decollare: la maggior parte del lavoro e' affidato alle chitarre, che disegnano intricate melodie e si intrecciano a meraviglia; su tutto cio' spicca ancora una volta la voce. Le tastiere si ritagliano uno spazio importante in questa canzone, contribuendo a cambiare ritmo dopo un paio di minuti, ed a descrivere atmosfere quasi space; il brano torna cosi' sui binari di partenza e cio' e' probabilmente la cosa piu' audace che si senta in tutto l'album; la coda sfoggia poi un'ultima variazione sul tema, anche questa di grande qualita'. La quarta traccia, Action, parte ancora a razzo, con chitarre e tastiere che duettano e duellano, batteria e basso in gran spolvero, per un'apertura veloce ed avvolgente; il brano frena dopo un minuto e mezzo quando incombe la voce, diventa piu' spigoloso e ruvido, salvo poi ri-accelerare e cambiare ancora una volta ritmo e melodia; forse la canzone piu' progressiva, comunque contenuta in quasi 5 minuti di durata, questa roba mi piace da morire. La traccia successiva, F.A.B., e' probabilmente quella piu' hard, che infatti parte forte con un giro di chitarra grasso e grosso, sembra di ascoltare qualcosa degli Uriah Heep; ritornello che piu' catchy di cosi' non si puo', il brano non ha bisogno di grandi cambiamenti e i brevi soli di chitarra fanno il resto. Si arriva cosi' ad Hurricane, la cui intro ricorda ancora una ballad, e infatti di ballata si tratta in questo caso, come si nota dal tono della voce e dall'atmosfera generale che permea tutta la canzone, ad eccezione del ritornello: un fantastico dialogo fra la chitarra ed il basso, con la voce ad accompagnare, descrivono un motivo orecchiabilissimo che si pianta in testa; un assolo di chitarra si occupa questa volta della chiusa. E' la volta di Going to the War, dove il ritmo e' stavolta dettato da un bel riff di tastiere, con la solita voce ed un bel basso robusto a completare la melodia; quando poi subentrano le chitarre la canzone decolla definitivamente, ed e' un gran bell'ascoltare; traccia che non si fa mancare niente, fra i soliti assoli di chitarra, richiami all'incipit ed altre acrobazie circolari. Chiude Walking on a Dream, la canzone piu' lunga e piu' atmosferica, non eccessivamente veloce come le altre, e con un bel tappeto di tastiere a descriverne gli sviluppi; canzone che conta su strappi, interruzioni, accelerate e decelerate per rimanere interessante per tutta la sua durata, e direi che il sestetto dal Belgio ci e' riuscito molto bene.

Non chiedetemi come sono venuto a conoscenza di quest'album, il bello dell'internet e' che ti puoi imbattere in letteralmente qualunque cosa, se cerchi abbastanza in profondita'. Album incredibilmente sottovalutato, a mio modesto parere se la gioca con tanti altri lavori molto piu' famosi ma non di altrettanta qualita'. La mia ricerca musicale non avra' mai fine e cio' mi aiuta a sopportare il peso della realta' quotidiana.

domenica 17 aprile 2022

mercoledì 13 aprile 2022

sabato 9 aprile 2022

martedì 5 aprile 2022

venerdì 1 aprile 2022

sabato 26 marzo 2022

martedì 22 marzo 2022

sabato 19 marzo 2022

mercoledì 16 marzo 2022

sabato 12 marzo 2022

giovedì 10 marzo 2022

martedì 8 marzo 2022

venerdì 4 marzo 2022

domenica 27 febbraio 2022

giovedì 24 febbraio 2022

domenica 20 febbraio 2022

venerdì 18 febbraio 2022

martedì 15 febbraio 2022

venerdì 11 febbraio 2022

martedì 8 febbraio 2022

sabato 5 febbraio 2022

mercoledì 2 febbraio 2022

martedì 25 gennaio 2022

Milano


Capitolo I

Alla trentunesima email che ancora una volta declinava gentilmente il mio invito, eseguo il log out del sistema e mi dirigo verso gli ascensori. Avevo smesso di fumare da anni ma ora avevo urgentemente bisogno di una sigaretta, con un po' di fortuna avrei trovato Maria giù in cortile e gliene avrei scroccato una. Stavo cercando di organizzare il più grande sciopero che la storia italiana avesse mai visto, avevo intenzione di coinvolgere tutti gli "informatici", come ci chiamano in Italia; volevo che tutti i lavoratori impiegati in mansioni relative all'informatica prendessero parte allo sciopero: ingegneri del software, sviluppatori, sistemisti, ingegneri della rete, tester, architetti, analisti, tecnici dell'hardware, avremmo messo l'Italia in ginocchio. Ovviamente nessuno finora aveva voluto aderire, nemmeno i miei compagni di squadra: Mauro aveva la moglie con una malattia cronica, Max aveva appena comprato casa e messo incinta la moglie, Ivan aveva la partita IVA. "Non possiamo permettercelo, ci dispiace, ma hai tutta la nostra solidarietà e supporteremo sempre la tua causa". Il fatto che non potevano permettersi di scioperare era la ragione principale per la quale dovevano scioperare, ma vaglielo a spiegare. Nel migliore dei casi ti rispondevano dicendo di non essere interessati, mandando in fumo le ore che avevi speso in discorsi belli tondi e ragionevoli cercando di convincerli, in altri casi minacciavano di dirlo al loro capo che poi l'avrebbe detto al mio, nella maggior parte dei casi non rispondevano proprio. Ci mancavano solo le intimidazioni mafiose, come se non fosse un mio diritto pretendere migliori condizioni lavorative.

Maria non era in cortile, ma c'era quella sua collega carina a fumare da sola, non potrà negarmi una sigaretta. Le chiedo da fumare e le faccio una domanda generica, per poterla lasciar parlare mentre mi perdo nei miei pensieri e mi godo le cancerogene boccate di fumo. Con 900 euro a Milano non ci campavo, 300 se ne andavano solo per l'affitto ed ero stato fortunato ad aver trovato un posto ad un prezzo così basso. La città era terribilmente cara, in tre anni non solo non ero riuscito a mettere un soldo da parte, ero costantemente costretto a contare il denaro che avevo in tasca. Ma la cosa più irritante era il fatto di non avere un contratto fisso; me lo facevano rinnovare ogni sei mesi, contratti a progetto che non prevedevano nè ferie nè malattie, figli dell'ultima riforma della legge sul lavoro, e ciò non mi dava sicurezze, nè la possibilità di fare investimenti di alcun genere. Sapevo che centinaia di migliaia di persone erano nelle mie condizioni, e sapevo che avremmo potuto tranquillamente bloccare tutto perchè il nostro lavoro è fondamentale, ma nonostante ciò i miei colleghi si rifiutavano di coalizzarsi e di chiedere condizioni migliori. Tutto ciò mi mandava in bestia.

Senza rendermene conto sono di nuovo davanti al computer, nel carnaio del tredicesimo piano dell'edificio principale di Banca Mediolanum, sede di Milano 2. Uno stupido grattacelo di vetro contro le cui finestre a specchio spesso andavano ad uccidersi uccelli di ogni specie. Una volta si schiantò un'anatra, fece un rumore pazzesco e cadde a strapiombo. Capettini andò a raccorgliela e probabilmente se la mangiò. Eravamo buttati nel mezzo dell'open space, con i nostri portatili fra mille schermi e cavi, cercando di concentrarci sul codice mentre intorno a noi impiegati di banca urlavano al telefono. C'era davvero poco rispetto per il nostro lavoro; per qualche ragione, nel 2008 un programmatore con tanto di laurea in informatica non aveva un profilo contrattuale da ingegnere, era invece classificato come metalmeccanico e pagato di conseguenza. Ma la cosa peggiore era la supponenza, l'arroganza, la maleducazione dei superiori, quei manager di banca le cui professioni non esisterebbero senza qualcuno che gli scriva il codice. Io purtroppo dovevo anche partecipare alle loro riunioni da bauscia milanesi, tutti tronfi e pieni di sè, ad elencare le loro stupide specifiche che avrebbero cambiato da lì a poche settimane quando si sarebbero accorti che ciò che avevano chiesto non era quello che volevano. Si davano tante arie da capoccioni senza i quali l'azienda non sopravviverebbe, ma quando li sentivi discorrere fra di loro tutto ciò di cui parlavano era calcio e figa. Dio quanto li odiavo. Due ore e mezza dopo riesco finalmente ad uscire da quella macchina divora anime. Prima di raggiungere la fermata della navetta devo assolutamente bermi un cicchetto o due al bar aziendale. In quel bar tutte le mattine c'è un piccolo signore anziano che ordina tre bicchieri di bianco, se li tracanna d'un fiato e senza batter ciglio va a lavoro. È quasi buio e sta piovendo, la primavera ancora latitava in questo marzo freddo e umido. La navetta aziendale ci scarica tutti alla fermata della metro, e tanto per cambiare c'è di nuovo sciopero dei mezzi. Non ne potevo davvero più, ero stanco e bagnato, tutto ciò che volevo era fumarmi un cannone lungo un piede. Vado allora alla fermata del bus, in mancanza di idee migliori. Passa un autobus ma non si ferma, immagino stiano facendo quella cosa per cui si sciopera ma si consumano comunque le risorse dell'azienda. Penso l'abbiano inventata i giapponesi. Quando ne avvisto un altro, metto da parte tutti i miei principi e mi pianto nel mezzo della strada, sperando con tutto il cuore che qualcun altro faccia lo stesso. Altre tre o quattro persone mi affiancano e il mezzo si ferma, saliamo a bordo. L'autista alla fine non è tanto cattivo, e ci fa scendere un po' dove ci pare. L'unica cosa buona che mi è capitata in questa giornata del cazzo.

Scendo dalle parti del quartiere Caiazzo e mi avvio verso i campetti, Vins mi aveva mandato un messaggio pochi minuti prima facendomi sapere dov'era. Anche lui di Matera, lo avevo conosciuto durante la scuola superiore quando avevamo fatto volontariato allo stesso mercatino dei libri, ma non ci eravamo mai frequentati prima di esserci ritrovati entrambi a Milano. Ora ci vedevamo praticamente quasi ogni giorno, con il mio collega Billy ed il mio coinquilino Sky a completare un gruppo di quattro uomini single poco più che venticinquenni, con ancora tanto vigore e tanta voglia di drogarsi, di fare baldoria e di godersi gli ultimi scampoli di giovinezza, e sicuramente non serve dire che eravamo in cerca di donne 24 ore al giorno 7 giorni la settimana. Vins era seduto su una panchina con il nostro pusher ed altri personaggi del quartiere, scoppiati a malapena in grado di badare ai loro bisogni fisiologici più immediati, avevano tutti alle spalle storie di droga ed anni passati in strada come punk erranti, ed ora arrancavano vivendo alla giornata, immagino che senza la pensione della madre vivrebbero nella galleria che porta a Piazza Garibaldi. Stavano facendo girare un cylum mentre africani, est europei e sudamericani se le davano di santa ragione sul terreno di gioco. Era ormai buio ed a stento si riusciva a distinguere la sfera grigiastra e scolorita sul campetto di mattonelle, grigie anch'esse, ma i giovani immigrati non avevano intenzione di smettere, anzi l'agonismo era palpabile. Marocchini ed algerini dal fisico asciutto ed olivastro, bulgari ed ucraini biondi, pallidi ed ossuti, cileni e peruviani piccoli, veloci ed ipertecnici. Amavo il multietnico proletariato milanese. Saluto Vins e gli altri bislacchi abitanti di queste lande periferiche, e gli chiedo se posso andare a casa sua a farmi una doccia ed a cambiarmi. Il mio buon amico mi passa le chiavi e mi dice di fumare un po' dal cylum innanzitutto.

Capitolo II

 

L'arrivo di Vins nel nostro gruppetto rappresentò un vero e proprio giro di boa. I primi mesi a Milano conoscevo solo Billy e Sky, poi un'amica in comune che all'epoca viveva in Spagna mi passò il suo contatto, dicendomi che se volevo svoltare a Milano dovevo conoscere Vins. Aveva ragione. A parte il fatto che ormai era nel capoluogo lombardo da cinque anni e conosceva bene la mappa della città nonchè i suoi locali, il mio compaesano andava allo IULM, dove il 90% degli studenti è di sesso femminile, ma la cosa più importante di tutte era il suo magnetismo, il suo esercitare un certo fascino sull'altro sesso. Era di carattere gioviale ed allegro, era rarissimo vederlo serio o pensieroso, sembrava vivere in una bolla di felicità inespugnabile, ed era anche un comico niente male. Se a ciò si aggiunge che adorava andare per locali, bere e fumare hashish, si comprende come Vins fosse l'elemento perfetto in un gruppetto di uomini che sta solo cercando di inserirsi in un contesto così confusionario, impenetrabile e francamente intimidatorio. Io e Billy non eravamo un granchè nell'arte dell'approccio, mentre Sky a malapena parlava in generale, invece Vins non aveva nessun timore a buttarsi ed a cominciare a ridere e scherzare con gruppi di ragazze che neanche conosceva, perchè "aveva la faccia come il culo", per dirla alla maniera di Billy.

Il nostro amico pusher mi passa il cylum. Erano ormai diversi anni che Vins si riforniva da lui, soprattutto per comodità, essendo il suo appartamento nel palazzo di fronte a quello del mio compaesano. Ero stato solo una volta a casa sua, e la sensazione di squallore e povertà che trasudava da quei 40 metri quadrati, in cui ci viveva con compagna e figlio in età prescolare, mi avevano messo addosso una tristezza indicibile. È davvero difficile nella società odierna barcamenarsi fra lavori in nero, o sottopagati, o precari, quando non si ha un titolo di studio o capacità appetibili al mercato. Il nostro spacciatore aveva semplicemente concluso che era molto più semplice e remunerativo vendere droghe leggere ai giovani e meno giovani del quartiere. Ed anche così a stento campava. Una situazione che in qualche modo vivevo anch'io, giunto a Milano con tante speranze andate sistematicamente frustrate quando dopo un po' mi ero reso conto di aver lavorato a tempo pieno quasi ininterrotamente per tre anni senza essere riuscito a risparmiare nulla, e soprattutto senza avere il sentore che le cose potessero migliorare.

All'inizio questa cittá mi faceva un po' paura. Dovetti imparare in breve ed a mie spese che non era possibile girarsela a piedi, dovevo imparare la topografia dei mezzi pubblici e soprattutto dovevo pagarli, e costavano cari. Dovetti imparare che l'apparenza è tutto a Milano, dovevo ben vestirmi e rinunciare all'aspetto trasandato da studente di sinistra se volevo trovare un lavoro, e se volevo essere notato dalle donne. Lo shock culturale che esiste fra Bari e Milano è qualcosa di sottile ed allo stesso tempo molto netto. Superate le difficoltà iniziali cominciai ad apprezzare la decadenza, quello strano squallore chic, quel doversi divertire ed ostentare il proprio divertimento a tutti i costi, che appartengono solo alla Milano da bere. Non c'era confronto con Bari. C'erano eventi tutte le sere, strade piene fino alle 3 di notte, un brulichio continuo, una nuova generazione di potenziali tossici figli di papà che voleva bruciare le tappe in fretta. Discoteche, club, centri sociali, concerti, piazze gremite, studenti stranieri, modelli e modelle, rifugiati e clandestini, rom e punk di strada, ragazze facili, e tanta di quella droga. È stato all’inizio un mondo nuovo ed inesplorato, affascinante e sexy, ma dopo tre anni cominciava già a seccarmi, non ne vedevo l'evoluzione, non ne vedevo il miglioramento, perchè semplicemente non c'erano.

Apro la porta dell'appartamento ed entro nel disordine della dimora di Vins, un bilocale che divideva con il fratello, il quale era esattamente il suo opposto. Non era in casa, probabilmente era già davanti al Gioia 69, a farsi due ore di fila per dover poi pagare 50 euro per entrare in un posto in cui non sei ammesso se non hai la camicia ed i cocktail costano 10 carte. Vado immediatamente al computer per controllare email e notifiche su Facebook; internet era diventato negli ultimi anni lo strumento principale per incontrare ragazze, l'online dating era ora la nuova frontiera, e per me non poteva profilarsi scenario migliore. Ero sempre stato abbastanza timido con le donne, inoltre balbettavo sotto stress, e per alleviare lo stress ricorrevo all'alcol, col risultato di essere spesso troppo ubriaco per poter condurre un discorso coerente. Liberato dalla pressione della presenza fisica, chattavo con svariate persone su Microsoft Messenger e riuscivo ad esprimere me stesso liberamente, quindi quando eventualmente le incontravo di persona avevamo già raggiunto un certo livello di intimità, e mi sentivo più sicuro. Noto che Cynthia, la studentessa americana che avevo conoscuto a gennaio, mi aveva mandato una nuova email. Le sue email erano sempre più lunghe e più profonde, come le mie d'altronde, e stavamo davvero raggiungendo un'intesa che non avevo mai provato prima. L'algoritmo di un sito di incontri aveva trovato compatibilità fra le nostre personalità, e chiunque abbia scritto quell'algoritmo ha fatto un ottimo lavoro, visto che siamo finiti a letto tre ore dopo esserci incontrati. A fine gennaio era rientrato in America ciò che io avevo archiviato come un altro successo personale, poi però abbiamo cominciato a scambiarci email, prima una volta alla settimana, poi a giorni alterni, ed ora quotidianamente. Avevo paura di essermi innamorato di lei, ed avevo paura che prima o poi mi avrebbe chiesto di andare a vivere da lei. Decido di aprire quell'email quando sarei tornato a casa quella sera.

Esco dalla doccia con i Prodigy a tutto volume e Vins e Billy che condividono uno spinello, surfando l'internet alla ricerca di qualcosa da fare in questo venerdì sera. Era sempre difficile mettere d'accordo tutti, impiegavamo ore per decidere dove andare. "Stanno gli Aretuska al Leoncavallo" dice Vins, "Li abbiamo visti quattro volte in un anno, e andiamo sempre al Leoncavallo!" protesta Billy. Vins e Billy battibeccavano in continuazione, ma si volevano un bene dell'anima. "Quella tipa che ho beccato su Badoo ha detto che va al Leoncavallo, e che porta un'amica" "E allora di cosa stiamo parlando. Dille di portare due amiche a ‘sto punto. Oh, bella Bob!" Billy saluta, mettendo su un video dei Disturbed. "Bella uagliò!" esclamo di rimando. Lo avevo conosciuto allo stage per il quale mi ero trasferito a Milano, poi Billy aveva deciso di accettare l'offerta della multinazionale fornitrice dello stage, io invece avevo deciso di unirmi ad una startup nel campo del VoIP, la quale startup mi avrebbe poi "prestato" a Mediolanum ed altre aziende come consulente. Eravamo entrambi a Milano per la prima volta, fu praticamente naturale cominciare a frequentarci, l'amicizia fu immediata. Era anche un metallaro, anche se non l'avreste mai detto, visto che il suo look abituale era pantaloni neri e camicia bianca, tipo vampiro.

Io e Billy rappresentavamo la parte responsabile del gruppo, avendo entrambi un lavoro professionale, pur essendo tutti e due inclini allo sballo, all'autodistruzione ed alla vita notturna. A quell'età potevamo ancora permetterci di fare bisboccia fino a sera tardi e poi andare a lavoro, un po' arruffati, la mattina dopo. Era decisamente migliore di me nella pratica del risparmio e della parsimonia, era sempre a caccia di sconti, coupon, groupon e discount vari, non spendeva mai troppi soldi quando usciva e soprattutto non offriva mai. A Vins questo suo braccino corto non piaceva e spesso lo criticava apertamente, ma Billy gli rispondeva che se non aveva soldi non poteva farci niente. Non era vero che non aveva soldi, ma comprendevo anche perchè si comportava in una certa maniera.

Dopo le pizze e birre d’ordinanza dall’egiziano (avevo scoperto che gli egiziani sono ottimi panettieri ed in grado di imparare l'arte della pizza quasi fossero napoletani veraci) ci incamminiamo per le buie strade della periferia milanese, ci vorrà un po’ per raggiungere la nostra meta. Era fondamentale arrivare al luogo di destinazione già ubriachi, Milano non ti permetteva di ubriacarti con i cocktail comprati nei locali, costosi ed annacquati. Di conseguenza si usciva sempre con una bottiglia di Lemon Soda che era per un quarto Lemon Soda e per tre quarti gin. Arrivati finalmente al centro sociale, ci tratteniamo al baretto che funge da anticamera della sala del concerto, dove gli Aretuska sono appena saliti sul palco. Gli africani che affollano il bar ballano le loro danze sensuali al ritmo dello ska, giovani e pieni di muscoli. Ci muniamo ciascuno di un bicchiere di plastica colmo di birra ed aspettiamo che le ragazze si manifestino. "Oh, ma ti hanno confermato che vengono?" domanda Billy. "Sine, te l'ho già detto", replica uno stizzito Vins. "Eccole là, hai visto?", continua il mio compaesano, scorgendo tre ragazze alte e carine. Vins comincia subito a dare il meglio di se stesso: con il suo carattere coinvolgente si presenta e ci presenta, parla del più e del meno, condendo ogni sua frase con qualche battuta di spirito, ciascuna accompagnata dalle sue movenze teatrali. Un robusto cannone sembra d’uopo, prima di buttarci nella folla. Mentre siamo nella dancehall la ragazza bionda sembra apprezzare le mie fattezze punk, mi viene vicino e vuole parlare. È molto bella, e mi sormonta di una buona decina di centimetri. Le chiedo se vuole uscire a fumare di nuovo, così possiamo parlare un po', al che acconsente. Mentre ci stiamo avviando verso l'uscita mi si avvicina un tipo con gli occhiali da sole, e mi chiede se voglio comprare dell'MDMA, chiamandomi "zio". Gli spacciatori mi hanno sempre avvistato da lontano; in ogni dove io mi sia recato, estero incluso, i pusher si sono avvicinati a me prima che io potessi avvicinarmi a loro. Mi mostra un pezzo e gli chiedo "Quanto?", mi risponde "20 carte", sebbene onestamente sembrasse molto più grande di una dose da venti euro, per cui gli passo i soldi con una manovra consolidata e continuo per la mia strada, nessuno dei due ha bisogno di aggiungere altro. Mi compro e le compro una birra, ci sediamo ai tavolini del cortile interno e rullo un'altra canna, mentre la ascolto cianciare della sua vita. Avevo scoperto che non era difficile intrattenere una ragazza, basta ascoltare ciò che dice e rispondere di conseguenza. Sembriamo piacerci a vicenda, ci scambiamo i numeri e decidiamo di rientrare. Avremmo fatto l'amore una settimana dopo e dopo di chè saremmo diventati così amici che non lo avremmo mai più rifatto. Buttiamo giù un paio di cicchetti al baretto e rientramo nella sala.

Passano così due o tre ore, Roy Paci e la sua banda stanno ritirando gli strumenti, le ragazze hanno rincasato, e noi ci ritroviamo di nuovo al bar, fatti e rintronati. Sto rullando l'ennesima canna quando una tipa mi si siede letteralmente in braccio. Mi racconta di quanto fossi carino e alternativo, è ubriaca e biascica, e mi chiede se ci prendiamo un paio di birre insieme. Penso che implichi che le birre dovrei pagarle io, per cui mi dirigo verso il bancone per la centesima volta. Billy decide di accommiatarsi, ed esce a cercare un taxi, e poi ha anche il coraggio di dire che non ha soldi. Vins invece mi dice che rimane per il dj set, sarebbe stato lì in giro e magari avremmo potuto prendere il notturno delle quattro. Io e la tipa continuiamo a parlare per un tempo indefinito, non ho idea di cosa ci siamo detti, ma so per certo che ad un certo punto è sopraggiunta l'amica con la quale era uscita quella sera, e mi propongono di tornare a casa tutti e tre insieme. Non erano particolarmente carine, ma non era il caso di sottilizzarsi, l'occasione di avere un threesome non capita spesso. Mi dicono che vanno un momento in bagno e poi avremmo chiamato un taxi, io penso che sia l'ora di farmi l'ultimo cicchetto, e quello è stato il mio unico errore quella notte. Non mi ero reso conto di quanto fossi ubriaco, preso dall'euforia di aver conosciuto così tante potenziali partner in una sola notte, mentre per tutto quel tempo avevo dovuto tenere le meningi concentrate sul dialogo, ed ora si stavano finalmente rilassando. Dovevo vomitare. Penso di aver passato l'ora successiva seduto sul pavimento lercio del bagno del Leoncavallo, mentre fricchettoni ubriachi e strafatti andavano e venivano, fra una minzione ed un tiro di coca. Mi ridesta la chiamata di Vins, sono quasi le quattro e se non vogliamo perdere la corsa notturna dobbiamo avviarci. Grazie a dio c'era Vins.

Capitolo III

La camminata verso la fermata del pulmino procede quasi in silenzio, io stavo cercando di riprendermi dalla sbronza mentre Vins non aveva quagliato tanto dal suo appuntamento, ma poco male, ne aveva un altro il giorno dopo, mi diceva. Riusciamo ad acciuffare il mezzo un attimo prima che parta, avrà a stento una decina di posti a sedere e ci dobbiamo stringere come sardine, tutti stipati l'uno sull'altro fra ascelle pezzate ed aliti alcolici. La corsa speciale notturna ci molla tutti sulla circonvallazione, alla fermata della 90 o della 91, a seconda di quale periferia dovevi raggiungere, est o ovest. Vins ha ancora voglia di fumare e rulla un altro joint, alla fine passano solo 20 minuti prima che il bus sopraggiunga, praticamente un miracolo. Mi affascinavano quei tragitti notturni attraverso la città, ammiravo le architetture del periodo fascista affiancate da quelle del periodo medievale, con i loro numerosi passeggeri esotici e colorati; asiatici con le cuffie enormi alle orecchie ondeggiavano il capo al ritmo di una musica che solo loro potevano sentire, sudamericani che discutevano ad alta voce in spagnolo, ed africani che non perdevano mai il buon umore e la voglia di ridere e scherzare a qualunque ora del giorno e della notte. Vins raggiunge la sua fermata prima di me, si congeda e mi dà appuntamento alla domenica. Ho una fame boia e non vedo l'ora di arrivare al kebabbaro sotto casa, chioschetto che raggiungo poco dopo. A memoria non credo di averlo mai visto chiuso, potevi contare sul nostro amico turco ogni volta che ti prendeva la fame chimica. Era il miglior kebab che avessi mai provato, o forse mi sembrava così buono perchè ovviamente non mangerei mai un cono di carne grondante grasso ed oli saturi a meno di essere sbronzo e/o sballato, rimane il fatto che non ho mai trovato un kebab così ben confezionato in nessun'altra parte del mondo. Divoro il lauto pasto in piedi sul marciapiede, insieme agli altri disperati nottambuli, rincaso e finalmente crollo in un sonno profondo.

Mi sveglia il trambusto combinato da Sky al suo ingresso nel minuscolo monolocale quando sono quasi le due del pomeriggio, era finalmente tornato dal suo ritorno forzato in quel di Filottrano (Ancona), dove si era dovuto recare per l'ultima analisi delle urine, essendo stato beccato con dell'erba in macchina un anno prima. Era ora finalmente fuori dal purgatorio e decisamente sul piede di guerra. A detta di Sky quell'anno senza droga è stato il più duro e difficile della sua vita, lui che era abituato a frequentare rave ed a prendere ogni tipo di sostanza. Ad un primo maggio qualche anno prima prese così tanta ketamina che dovemmo portarlo a casa in braccio. Quando andammo allo Sziget Festival una notte si prese una pillola di non so cosa e rimase a vagare in giro completamente disorientato fino alle 10 del giorno dopo. Mi raccontò che ad un certo punto si ritrovò a camminare sul ponte che collega l'isola dove si svolge il festival alla città di Budapest, ed a metà di questo ebbe un momento di lucidità e si girò per tornare indietro, al sicuro. L'unica volta in cui andai con lui a Filottrano per un sabato sera consumai più cocaina di quanta ne abbia consumata in tutto il resto della mia vita messo insieme, uscimmo alle sette di sera e tornammo alle sette del mattino, più in botta che mai. Il nostro incontro cambiò i destini dell'uno e dell'altro, ne sono sicuro: ero a Milano da una settimana ospite di un parente e dopo aver visto appartamenti su appartamenti arrivai alla porta della dimora di Sky; quest'ultimo si era appena mollato con una ragazza con cui era stato per tre anni, e cercava ora un coinquilino. Anch'io mi ero appena mollato dopo tre anni, ed era solo la prima coincidenza. Mi offrì una Moretti da 66 e si mise a fare una canna, e lì mi ha praticamente conquistato. Non mi importava se dovevamo vivere in 30 metri quadrati, non mi importava se ogni volta che passava il tram tremava tutto (dopo un giorno non lo senti più), e non mi importavano neanche gli scarafaggi che dalla strada entravano strisciando sotto la porta (l'uscita del nostro monolocale dava praticamente sul marciapiede), quel ragazzo mi andava a genio e i tre anni passati in sua compagnia quasi giornaliera sono stati anni di maturazione e decisioni importanti per entrambi, e ci siamo sempre fatti forza e sostenuti a vicenda. Era il mio compagno ideale, come me aveva bisogno di alcol e di erba per sopportare il peso dell'esistenza, e come me non amava parlare a caso, le nostre conversazioni erano rare ma significative; era estremamente intelligente ma non aveva la benchè minima disciplina, in tre anni di scienze politiche era riuscito a dare solo due esami, nonostante il fatto impiegasse ogni secondo del suo tempo libero nella lettura di quotidiani, saggi e documenti politici. Era anche di bell'aspetto, quindi non aveva difficoltà nel rimorchiare, nonostante il fatto che parlasse pochissimo. Anche Billy era della provincia di Ancona, e con loro due uniti a noi due materani formavamo un gruppetto molto affiatato, eravamo persino tutti e quattro juventini, durante gli anni più bui della storia del club e costretti a sorbirci i successi dell'Inter proprio nella Milano nerazzurra.

Il mio coinquilino ha sottobraccio il pacco mandatoci da mia madre con cadenza bisettimanale, appena consegnatogli dal buon fattorino. Scamorza, treccia, nodini, parmigiana, pasta al forno, barattoli di salsa, pane, carciofi sott'olio. C'era ogni ben di dio. Bisognava rifocillarsi per essere pronti per il concerto tributo a Joe Strummer, che sarebbe cominciato alle diciotto e avrebbe continuato per tutta la notte, in un quartiere a nord chiamato Bande Nere. Suonava anche una band di Filottrano, per questo c'era un pulman di fan che sarebbe venuto a Milano proprio per l'occasione, e Sky aveva puntato una ragazza di quel gruppo.

Arriviamo a Bande Nere che il concerto non è ancora iniziato, di conseguenza abbiamo la buona idea di cercare un supermercato per comprare una bottiglia di un qualche alcolico, cosicchè da non spendere troppo nel locale. Avvistiamo una EsseLunga ad un paio di isolati di distanza. Mentre siamo in fila alla cassa due rapinatori irrompono indossando maschere di personaggi famosi ed armati di pistole, nel giro di due minuti si fanno consegnare tutto il contante dalle cassiere e si dileguano, non prima di aver augurato a tutti una buona Pasqua. E quello è stato solo l'inizio di quella assurda serata. Riusciamo a pagare la bottiglia di Jack Daniels che stavamo cercando di comprare e ad andarcene dal supermercato prima che arrivi la polizia e rallenti tutte le operazioni. Tornati al locale, c'è una nutrita folla in attesa che le porte si aprano, e Sky avvista sia i suoi amici sia la ragazza che gli piaceva. Quest'ultima è in compagnia di un'amica che io trovo molto carina, la situazione sembra evolvere nella giusta direzione, essendo noi armati di whiskey e dell'MDMA che avevo comprato la sera prima, ed essendo queste due ragazze delle sballone incallite, a detta del mio coinquilino. Passiamo insieme un'oretta, durante la quale ci scoliamo la bottiglia e facciamo amicizia, tanto comunque la band anconetana avrebbe suonato in tarda serata. Non siamo ancora ubriachi quando entriamo nel locale, di conseguenza Sky mi suggerisce di farci in quel momento, solo io e lui, così da raggiungere il livello desiderato. Io però non avevo mai preso MDMA prima di allora, quindi sciolgo nella bottiglia d'acqua tutta la dose, alquanto ingenuamente, al che il mio amico esclama: "Dio bono Bob, ce l'hai messo tutto? Sei un pazzo!". Più che pazzo sono stato uno sprovveduto, visto che sono andato in completo black out per diverse ore, durante le quali non ricordo nulla di cosa sia successo, ma pare che abbia ballato, pogato e rovinato sul pavimento svariate volte, per quel che mi ha poi raccontato Sky.

Capitolo IV

Mi riprendo sui divanetti del locale, sul tavolino davanti a me c'è un gin tonic intatto e un bicchiere d'acqua quasi vuoto; guardo l'ora sul cellulare, sono quasi le 22. Sono stato fuori per ore. Dò un'occhiata a scarpe e vestiti, poi al pavimento, per fortuna sembrava che non avessi vomitato. C'è una band sul palco, la gente sta ballando e pogando. Sopraggiunge la ragazza di Filottrano conosciuta poche ore prima, sono così felice di vederla. "Oi, sei andato in botta dura eh? Ahahah! Per fortuna t’ho buttato 'n occhio, a un certo punto volevi un gin tonic a tutti i costi, ma ti ho fatto bere l'acqua prima". "Sei un angelo, ma siete tutte così a Filottrano?" Ride di gusto anche se non avevo detto niente di divertente, mi sembra ubriaca e di buon umore, comincio a coltivare speranze di potermela portare a letto quella sera. Cerco maldestramente di alzarmi ma ho le gambe intorpidite, urto il tavolino e faccio cadere il bicchiere di gin tonic, il cui contenuto si disperde fra la superficie del tavolo e la moquette che immediatamente lo assorbe. Impreco mentre la mia giovane amica si sganascia dalle risate, prendendomi anche un po' in giro per la mia inesperienza con gli stupefacenti sintetici. "Maledizione, avevo davvero voglia di un sorso. Andiamo al bar? Vuoi un cocktail?" "Lo vorrei scì, ma non ci ho un soldo" dice col suo adorabile accento. A quanto pare anche io avevo dato fondo a quasi tutto il cash che mi ero portato. Dovevo inventarmi qualcosa.

Era arrivato il momento di mettere in pratica un trucco che mi aveva insegnato Lupin tempo addietro. "Ei senti, adesso rubiamo una bottiglia dal bar, c'è un solo barman, non ci sono buttafuori, tu devi solo distrarre il barista, al resto penso io". "In che senso distrarre?" "Vai al bancone dal lato opposto dove tiene le bottiglie, chiamalo e digli che vuoi un cocktail ma non sai quale, fagli elencare un po' di intrugli e appena vedi che ho fatto te ne vai con una scusa". Mi sembra una tipa sveglia e spigliata, inoltre ho come la sensazione che abbia parecchia esperienza con situazioni un po' al limite, sapevo di potermi fidare. Se perdeva l'attenzione del barman prima che avessi finito c'era il forte rischio di essere colti in flagrante. Mi unisco al gruppetto di giovani che si accalcano sull'orlo del bancone alla disperata ricerca delle cure del dispensatore di veleni, e come previsto, non appena la mia giovane ed avvenente amica lo chiama costui si precipita in quella direzione. Mi defilo e raggiungo il lato del bar dov'era la stazione di lavoro del nostro amico barista, le bottiglie sono lì in basso, ammucchiate dall'altra parte della struttura in legno, devo solo allungare il braccio ed afferrare la prima che mi sarebbe capitata. Era un numero che avevo eseguito più di una volta in precedenza, ma dava sempre una bella scarica di adrenalina. Osservo bene la mia compagna in crimine ed il suo linguaggio del corpo, poi gli altri avventori che stanno anche loro guardando in quella direzione, in attesa del loro cocktail; il movimento va eseguito al momento esatto, senza esitazione ed il più velocemente possibile. Ci siamo, il barista ha messo i gomiti sul bancone, impugno il primo collo che riesco a raggiungere, metto la bottiglia sotto la giacca, e mi dileguo. Vado verso i divanetti e dopo un po' sono raggiunto dalla mia compagna. "Ahahah, devo ammettere che questa non l'avevo mai vista! Cosa abbiamo ciulato?" "Una bottigliazza di vodka, però dobbiamo stare attentissimi a non farci vedere mentre la beviamo" "Senti, io c'ho una fame da lupi, andiamo a mangiare qualcosa e ce la beviamo fuori con calma?" Nessun altro piano mi sarebbe sembrato migliore in quel momento. Mando un messaggio a Sky avvertendolo che ci saremmo rivisti più tardi o al massimo a casa.

Esco fuori e faccio un bel respiro profondo, ero stato al chiuso per diverse ore e gli odori di inizio primavera non potevano non metterti di buon umore, nonostante lo smog e le polveri sottili della città. Un bel paio di sorsoni a testa dalla bottiglia di vodka sembrano di rito, eravamo stati monelli e ci veniva solo da ridere, con la tensione sessuale che cresceva, fra sguardi intensi e sfioramenti non esattamente accidentali. Ci incamminiamo verso un paninaro ambulante, di quelli che vendevano quei panini unti e zozzi ma così maledettamente buoni, quando ormai ci teniamo per mano. Dovrei avere gli ultimi 6 o 7 euro, più che sufficienti in questo genere di circostanze. "Capo! Ecco il tuo Calabrese, ed una bella porchetta per la signorina!", il gestore è chiassoso, sudato e folkroristico. "Che vuoi fare? È ancora presto, magari torniamo al locale?" le chiedo. "E se ci facessimo un giro nel quartiere? Possiamo trovare un bel localino e facciamo serata lì. Il gruppo l'ho visto un milione di volte, in verità volevo solo farmi un giro a Milano e magari trovare un ragazzo carino". "Ah, allora dobbiamo andare da qualche parte a cercarlo". Ride ancora di gusto, sembra apprezzare il mio umorismo. Ora non mi resta altro da fare che aspettare il momento giusto per baciarla. Camminiamo così in giro per una mezzora, parlando e scolandoci la vodka, quando finalmente si palesa un clubbino. I subwoofer risuonano rumorosi, c'è una nutrita fila in attesa di entrare ed un corpulento buttafuori all'entrata, il locale dev'essere pieno. "Che facciamo, ci mettiamo in fila ed aspettiamo che qualcuno se ne vada?" "Sta bene, tanto non mi sembra ci sia molto altro nei paraggi" mi risponde. Ma mentre siamo lì in fila il buttafuori nota che stiamo bevendo una bottiglia, e si avvicina. "Voi due qui non entrate, non si possono portare bottiglie nella fila". "E dove sta scritto? Siamo in strada, quindi siamo ancora su suolo pubblico se non sbaglio" replico. "Sono io che decido chi entra e chi no, e voi due non entrate", conclude l'energumeno. A quel punto la molla da ribelle che si è sempre annidata nella mia indole ha fatto un deciso scatto, quindi senza neanche pensarci ho scolato ciò che rimaneva della vodka, ho superato il buttafuori con passo felpato ed ho posato la bottiglia vuota davanti alla porta d'ingresso del locale. Il bouncer a quel punto ha perso le staffe. Mi afferra per il colletto della giacca e mi solleva da terra. "Ora mi hai davvero rotto i coglioni, fattone del cazzo!" esclama. Ed a quel punto mi scaraventa in uno stanzino all'interno del locale, stanzino che contiene solo qualche sedia. "Fra un po' torno e ti faccio il culo!" urla, sbattendo la porta e chiudendola a chiave. Non mi ero mai trovato in una situazione del genere, ed inoltre dovevo ora fare i conti col fatto che avevo quasi sicuramente bruciato ogni possibilità di rivedere quella ragazza. Mi maledico e non posso che mordermi le mani. Il fatto che un fascista palestrato sarebbe tornato di lì a poco per riempirmi di botte era passato totalmente in secondo piano.

Per fortuna il fascista palestrato non si era manifestato, quando erano ormai le due di notte e qualcuno stava finalmente girando la chiave nella serratura della porta che mi teneva prigioniero. Un tizio che non avevo mai visto prima è sull'uscio. "Dai, vai fuori dai coglioni, ti è andata bene che abbiamo avuto altri cazzi stasera". Corro fuori immediatamente soprattutto perchè dovevo urgentemente urinare. Chiaramente non c'è traccia della mia amica, ed a quel punto non mi resta che chiamare Sky, il quale insolitamente risponde al primo squillo. "Oh Bob, tutto a posto? Sono ore che ti sto chiamando" "È successo un gran casino, e sono finito rinchiuso in un posto dove non c'era campo. Dove stai ora?" Sky era davanti all'uscita del locale del tributo a Joe Strummer, se fossi rimasto lì niente di tutto ciò sarebbe successo. Arrivo al luogo di destinazione in pochi minuti, le band hanno finito di suonare e c'è ora un deejay. "Dove sono andati tutti i filottranesi?" chiedo al mio amico marchigiano. "Eh, son ripartiti col pulman, ce voglio sei ore per arrivare" "Ma anche le ragazze?" "Pè forza, lunedì c'hanno scola" "Come scuola? Sono mica minorenni?" "No, fanno il quinto, c'avranno diciotto o diciannove anni. Ma te la sei bombata?" "No macchè. Bombata dove fra l'altro" "Io una volta me son fatto una nei cessi del Leoncavallo!" "Sì lo so, me l'hai raccontata quella storia. E tu sei un inzivoso". Inzivoso vuol dire lurido in materano, ma Sky ormai aveva piena familiarità con il mio gergo. "Tu fatto niente?", gli chiedo. "No niente, la tipa ha un ragazzo ora" "Cazzo che pacco amico mio, serata di merda" "Non tanto, me son preso l'MD e me la son cazzeggiata in giro. Nnamo a casa, Bob". Sky aveva il dono della sintesi. Non era troppo tardi ed i pulman ancora circolavano, in meno di un'oretta riusciamo a tornare alla nostra dimora, dove ci attendono le cibarie di mia madre per soddisfare la fame chimica, ed un po' di hashish per fomentarne ancora. Guardiamo qualche puntata dei Simpson sul mio laptop e ci addormentiamo sul divano.

Capitolo V

Adoravo il rituale della domenica, fra gli abbondanti pranzetti cucinati da Sky, la partita della Juve in streaming su qualche sito pirata, ed il proverbiale giro in piazza Duomo con Billy. Billy era quello più fashion dei quattro, ed era sempre in giro per negozi per accalappiare qualche sconto o svendita dell'ultima ora. "Vieni a fare un giro in Duomo, andiamo a guardare un po' di ragazze" "Nah Bob, fra un po' viene Vella e studiamo un po'" "Certo, Sky. Sicuramente". So benissimo che andrà a finire che passeranno il pomeriggio a bere e fumare, come al solito.

Prima di recarmi in piazza fumo una canna solitaria su un ponte sul Naviglio, giusto per riflettere sulla situazione attuale e tirare un po' le somme. Il THC mi schiariva la mente e mi permetteva di soppesare le varie situazioni senza pregiudizi e senza interferenze emotive, avevo bisogno di quel quarto d'ora di riflessione intensa quotidianamente. Fumare da solo era come andare dallo psicoterapeuta, solo che lo psicoterapeuta era una voce nella mia testa, voce che di solito ci prendeva. C'era poi il bellissimo panorama del Naviglio di periferia, sui cui ponti arrugginiti raramente passava un'anima, fra i liquami ed i rifiuti galleggianti, i ratti e le zanzare giganti. Appartenevo a quelle zone periferiche e degradate, e mi ci trovavo a mio agio.

Billy è davanti a Zara, propone caffè e amaro. Passiamo così un paio di ore a gironzolare per Duomo e Brera, "Mille vasche in corso avanti e dietro" cantava Max Pezzali, fermandoci in qualche baretto di tanto in tanto per un amaro, e cercando stradine poco frequentate per fumarci uno spinello. Billy aveva trovato i pantaloni eleganti a cui mirava, dopo aver girato in lungo ed in largo per trovare la misura giusta al prezzo giusto, e stiamo ora fumando gli ultimi rimasugli di hashish che mi erano rimasti, in un vicoletto dietro la Scala. "Abbiamo finito il fumo, Bob?" "Già, e Vins non mi risponde ai messaggi. Io mi sa che vado a fare una capatina a casa sua, vuoi venire?" "E se non c'è?" "Non penso, avrà fatto serata ieri e secondo me sta a letto a smaltire la sbornia" "Vabbo', andiamo a prendere sto fumo" "Lo sai che devo fumare, se no mi stresso".

Ma arrivati sotto casa di Vins qualcosa evidentemente non torna. Di solito le luci sono accese in quasi tutte le stanze, ma stasera solo la camera di suo fratello era illuminata. Inoltre solitamente c'è la musica che si sente fin fuori sul marciapiede, essendo il loro appartamento al piano terra, a qualunque ora del giorno, ma non stasera. "Ho provato a chiamare Vins, ha il cellulare spento" mi fa sapere Billy. "Ho provato anch’io più di una volta" "Merda, speriamo non sia successo niente, andiamo a chiedere al fratello". Dobbiamo citofonare un paio di volte prima che Franco risponda, e non presenta le maniere affabili di cui è solito. "Ragazzi, hanno arrestato mio fratello. Quel bastardo del pusher ha fatto il suo nome, sono venuti con la volante ed hanno perquisito l'appartamento, hanno trovato una panetta di non so quanti grammi. Vins ha dovuto faticare parecchio per convincerli che io non c'entro niente. Porca puttana, io manco me le fumo le canne. I miei sono già in viaggio da Matera, arriveranno in mattinata. Quel trimone alla fine è riuscito a mettersi nei guai, io gliel'avevo detto duecento volte!" Franco è esasperato, e ne ha ragione. Vins da un po' aveva cominciato a spacciare allo IULM, diceva che quei bambocci viziati non conoscevano la differenza fra l'hashish ed il pongo, e potevi tranquillamente chiedere loro cinquanta carte per un grammo scarso. Ormai comprava il fumo ad etti e c'erano buone possibilità che ne avessero trovato un bel po', con il contante ed il bilancino. Vins poteva finire seriamente nei guai.

"Allora, aperitivo in colonne?" propongo, "Aperitivo in colonne sia." Il nostro amico era in guai seri, ma non c'era niente che potessimo fare, almeno per il momento, quindi tanto valeva continuare nella nostra missione alla ricerca di un po' di fumo. Ci congediamo da Franco e ci avviamo verso la metropolitana, era l'orario perfetto per usufruire dei falsi sconti che i vari bar proponevano sotto l'etichetta di "happy hour", una mera scusa per vendere cibarie in scadenza, avanzi e alimenti di basso rango, tutto compreso nel pacchetto "Paghi venti euro e mangi e bevi quanto vuoi". Vins ci aveva insegnato che se devi spendere venti euro per cibo di dubbia qualità e bevande annacquate, a questo punto è meglio approfittarsene ed ordinare solo Negroni. Le Colonne di San Lorenzo ne ospitavano numerosissimi di quei bar; era una di quelle piazze come ce ne sono tante in Italia, ma questa era a Milano in ciò che è rimasto di alcune rovine romane, ed era gremita ogni santa sera. Era la mia meta obbligata i primi tempi in città, quando non conoscevo altri posti e non avevo comunque una lira per poter entrare in qualche locale, e vi ho passato delle bellissime serate, seduto per terra o sulle scalinate, a bere qualche sottomarca di birra ed a semplicemente osservare il viavai e le gozzoviglie degli adolescenti e degli studenti universitari, facenti parte di un mondo seducente che mi sembrava inaccessibile. L'immancabile Becks-man era al centro della piazza con i suoi frigoriferi portatili, e quando urlava "Becks-man!" il resto della piazza urlava "Becks baby!" di rimando. Alla fine gli sbirri, occupati com'erano in ben più gravi faccende, tolleravano quella presenza, quella figura vistosa e grottesca, che si faceva largo fra la folla con andatura dinoccolata a vendere birra sotto banco. In effetti la circolazione di droghe e bevande di contrabbando era abbastanza tollerata, di conseguenza si poteva tranquillamente rullare e fumare senza doversi nascondere troppo, e soprattutto si poteva trovare del fumo con relativa facilità.

Dopo l’usuale aperitivo a base di poco cibo mediocre ed un paio di Negroni, consumati al localino che rivendica la paternità dell'invenzione dell'happy hour (il proprietario sosteneva che i suoi antenati avessero inventato la pratica nientemeno che all'inizio del 1800) dobbiamo ora arrovellarci la mente e pensare ad una maniera di trovare della droga leggera senza farci rifilare un pacco, cosa che tende a capitare quando è il consumatore ad approcciare il venditore. "Possiamo provare da quei punk nel parchetto" suggerisce Billy, "Non fidarti mai dei punk, sono i primi a tirarti dei pacchi colossali. Dobbiamo cercare di individuare qualcuno che lo sta vendendo, è l'unica maniera di concludere un affare decente." Certe volte Billy mi stupiva per quanto fosse ingenuo e per quanto mancasse di intelligenza da strada. "Ce l’ho." continuo "Andiamo al locale occupato giù al Naviglio, non troveremo uno spacciatore lì, ne troveremo dieci." "Ma dici quel locale lercio che Sky ogni tanto propone e puntualmente rimando la proposta al mittente?" "Sì esatto, ci sono andato con Sky un paio di volte, se non fai caso ai vagabondi, agli scoppiati, ai cani pulciosi ed ai topi non è così male." "Sei un coglione, Bob. Dai, togliamoci sto dente." "Occhio a non sporcarti la gonnella." Il localino è ad una ventina di minuti a piedi verso Est seguendo il Naviglio fra le Colonne e piazza 24 maggio, e più che un locale è una baracca che sta in piedi grazie a chissà quale miracolo, sempre piena di emarginati e poveri in generale, senzatetto, immigrati, malati di mente e tossicodipendenti. Anche questa sera c'era musica, e come al solito si trattava della drum'n'bass più monotona e martellante che non avrebbe sfigurato al più estremo dei rave. Dalla strada scendiamo gli scalini che conducono giù al fiume, la catapecchia si erge su un lato di questo a pochi metri dal bagnasciuga, e sicuramente si riempie d'acqua quando il Naviglio è in piena. Fuori c'è un gruppo di ragazze a ballare la musica sintetica con movimenti ondulatori e ripetitivi, i poveri cani dei punkabbestia che cercano di stare il più lontano possibile dalla fonte del "rumore" e qualche altro personaggio random come solo in questi bassifondi se ne trovano. "Se ti porti a casa una di queste il preservativo te lo devi mettere per forza" dice Billy. "Te ne devi mettere due" replico. All'interno è buio, riusciamo ad individuare lo smerciatore di birre e compriamo un paio di lattine a mezzo euro ciascuna. La nostra presenza viene subito notata, probabilmente a causa della camicia bianca di Billy, di conseguenza lo spacciatore non si fa attendere e in men che non si dica ci adocchia e ci punta. "Bella ragazzi, che vi serve?" "Fumo ne hai?" "Dovrebbero essermi rimasti tipo cinque grammi, torno subito". La transazione è rapida, il tizio ci porge una bustina con dentro un pezzo di una qualche materia scura, e si dilegua. Il locale sta diventando sempre più affollato, umido e soffocante, quindi ci sembra il caso di uscire a fumarcene una. "Ci facciamo una cannetta qui e poi torniamo in Colonne, OK?" chiedo a Billy. "Ci sta, possiamo stare in giro un altro paio d'ore. Ti va di andare in un bar o qualcosa del genere?" "Perchè no, vediamo cosa ci riserva la serata". Ma la serata aveva da riservarci qualcosa che non avremmo mai potuto immaginare. "Oh Bob, ma tu come ti senti?" chiede Billy dopo qualche minuto. "Eh in effetti non mi sento benissimo, è una sensazione strana che non ho mai provato prima e non riesco ad identificare. Che cazzo di fumo ci hanno dato". Ciò che avevamo rimediato in quel localaccio non era sicuramente hashish, ancora oggi non ho la minima idea di cosa fosse, ma sospetto fosse eroina. Di lì a poco sentiamo i nostri corpi intorpidirsi, mentre la mente comincia a salire ed a perdersi nell'aere, sempre più su. Dopo mezz'ora siamo entrambi così fatti da non riuscire a mettere insieme due parole. Decidiamo di tornare a casa, tanto intenso è l'effetto anestetico, la coordinazione e l'uso della parola ci risultano particolarmente difficili in questo momento. Per fortuna ero ad una ventina di minuti di cammino da casa, qualunque cosa fosse che ci avevano rifilato quella sera è stato uno degli sballi più forti che abbia mai provato in vita mia, e tornare a casa sano e salvo senza perdermi non è stata impresa da poco. Giunto finalmente nella mia dimora, quasi non noto che Sky non c'è e mi dirigo direttamente nella mia camera, fin troppo fuso per poter guardare la tv o stare al computer. Per la terza sera di seguito crollo quasi istantaneamente appena dopo aver toccato il cuscino, dico quasi perchè faccio in tempo a leggere il messaggio di Billy che recita "Ho fatto appena in tempo ad arrivare a casa per sboccare la cena. Che cosa cazzo ci siamo presi stasera".

La cosa positiva è che essendo stramazzato alle dieci di sera, alle sei del mattino ero sveglio e pimpante. Caffè, Kinder Brioss, e si surfa l'internet per qualche minuto in attesa che il ferro si scaldi per stirare l'abito. Stavo ora finalmente leggendo l'email di Cynthia, dopo essermene completamente dimenticato, con tutte le peripezie che mi erano successe quel fine settimana. Sei mesi dopo mi sarei trasferito negli States.