lunedì 2 dicembre 2019

Disen Gage - The Big Adventure (2019)

I Disen Gage sono una band russa formatasi nel 1999 e attiva nei circuiti universitari moscoviti fino al 2002, anno in cui i quattro membri decidono di sospendere l'attivita' per mancanza di seguito. Costoro, il chitarrista Konstantin Mochalov, il batterista Eugeny Kudryashov, il bassista Nikolai Syrtsev ed il sintetizzatorista/chitarrista Sergei Bagin continuano le rispettive carriere accademiche, finche' nel 2004 una casa discografica russa trova alcuni dei loro nastri e li convince a riformare la band. I Disen Gage pubblicano cosi' tre album di musica avant'garde, fra il 2004 ed il 2006, i quali non riscuotono praticamente nessun successo commerciale, e si ritirano nuovamente dalle scene, salvo poi ricomparire nel 2016 con diversi auspici, cioe' questo prog rock eclettico ed elettrico che li porta finalmente alla ribalta. Da li' scaturiranno altri 4 album dal 2016 al 2019, di cui questo The Big Adventure e' a mio parere il piu' maturo e il piu' riuscito. Il loro e' un progressive originale, completamente strumentale, con le chitarre che costruiscono duetti a mantenere il sound e far evolvere il groove, mentre tastiere, basso e batteria ben si innestano nel tappeto sonoro delle due chitarre e a volte si ritagliano  spazi solisti, il tutto immerso in atmosfere allegre e gioiose, ritmi sostenuti e brani concisi, fra i quattro e gli otto minuti di lunghezza. Dopo una breve intro si comincia sul serio con Adventures, sostenuta da un riffone di chitarra, sul quale si innesta l'altra chitarra con arpeggi indovinati, i quali disegnano una melodia veloce ed accattivante; il sound evolve cosi' sempre sostenuto dalle due linee intersecanti di chitarra, e quando gli altri due strumenti, tastiere e basso, si intromettono, la melodia evolve ulteriormente. Il ritmo si abbassa un attimo a meta' traccia, grazie ad un solo di tastiere interessante abbastanza da coinvolgere la batteria, per poi arrestarsi e lasciare le redini ad un assolo di chitarra, che in seguito conduce il suono sui binari iniziali e quindi a conclusione. Un avvio davvero ben riuscito. Si prosegue con Chaos Point, atmosfera ora piu' pesante, con una tromba a renderla ancora piu' greve e solenne, la canzone non decolla prima del secondo minuto, quando finalmente si comincia ad intuire la melodia, non che questo sia necessariamente un difetto; il brano continua a svilupparsi ed a prendere diverse ramificazioni in maniera forse eccessivamente lenta, fino al quinto minuto circa, quando interviene la chitarra a descrivere un riff veloce e ficcante. Un altro paio di spunti per piano e tromba conducono alla conclusione uno dei brani meno forti del lotto. Enough e' introdotta da arpeggi di chitarra, che descrivono motivi celestiali per un minuto, poi si arrabbiano, basso e batteria si fanno sentire, ed e' musica sopraffina; le due chitarre sono ispirate abbastanza da condurre e portare a conclusione una canzone che un po' esprime il repertorio dei due chitarristi, fra arpeggi, strimpellate e solidi riff metallici. Vi e' poi All the Truths' Meeting, a mio pare la traccia piu' ispirata, un groove continuo, con tutti gli strumenti in grande spolvero: probabilmente il brano piu' progressive, cambi di tempo che si susseguono senza soluzione di continuita', batteria e fiati, atmosfere circensi, sudamericane, persino un po' di tango. La sesta traccia e' Selfish Tango, su territori ora piu' jazz, trascinata dal basso e dalle percussioni, piu' l'onnipresente chitarra; ritmi veloci, giri strumentali orecchiabili, dopo un minuto e mezzo e' piu' tango argentino che mai, grazie alle tastiere ed al basso, mentre la chitarra continua a disegnare ghirigori. L'atmosfera si indurisce in seguito, si fa ora piu' severa e malinconica, per poi rallentare e lasciare spazio ad intrecci chitarra tastiere, psichedelici e spaziali, che domineranno la scena fino ad un minuto dalla fine, quando basso, batteria e chitarra descrivono un motivo rock'n'roll incisivo e rapido, che porta cosi' il brano, e che brano, a conclusione. Carnival Escape, la canzone piu' lunga con i suoi 8 minuti, e' introdotta da atmosfere decadenti ed elettriche, ben espresse dal basso e dalla chitarra, per poi arrestarsi e lanciarsi in un siparietto free-jazz, molto morbido e melodico, allegro; il resto del brano e' tutto un alternarsi di ritmi ed atmosfere, i quattro talenti russi sono maestri nel saper combinare umori diversi, tutti ben amalgamati ed incastonati in un sound solido ed orecchiabile; il flusso sonoro scorre fluido e non conosce momenti di stanca, e' davvero un piacere per le orecchie. Conclude Fin, traccia piu' malinconica e decadente inizialmente, grazie agli accordi di piano e le solite pizzicate di chitarra, che prende in seguito energia, grazie soprattutto all'ingresso della batteria, descrivendo ora un motivo un po' piu' vivace, seppur triste in qualche modo, motivo che risulta indovinato abbastanza da poterci basare il resto del brano, fra escursioni ed introspezioni varie. E' il 2019 ed il prog non accenna assolutamente a dare segni di cedimento, finche' ci sono band come i Disen Gage c'e' speranza di continuare a sentire buona musica.

lunedì 28 ottobre 2019

Piedistallo

Come paventato da oramai oltre un anno, l'ultimo dato elettorale umbro dovrebbe porre noi tutti davanti ad una riflessione oramai improcrastinabile: se persino in una regione dimostratasi in passato fortemente rossa, operaia ed industrializzata, la Lega tocca vette del 37% - in crescendo di quasi sette punti in un solo anno - occorrerebbe allora, piuttosto che pontificare su una presunta ma tanto desiderata abolizione del suffragio universale, chiedersi a monte per quali ragioni i risultati elettorali sono inconfutabilmente diretti verso un'unica direzione. Occorrerebbe forse scendere dal piedistallo pseudo-elitario che questa pseudo-sinistra s'è costruita negli anni e provare a capire quanto sia
controproducente sputare in faccia al Popolo, denigrandolo ed etichettandolo quale ignorante, xenofobo, omofobo e populista, reo soltanto d'esser stanco della retorica demagogica di questa "sinistra" liberista che a tutti pensa fuorché al Popolo. Occorrerebbe forse scendere da questo piedistallo e provare a comprendere ed accettare il fatto che intere generazioni di disperati, privi di qualsivoglia dignità economica, lavorativa e umana, necessitino di riforme incidenti sulla sfera economico-sociale ed economico-previdenziale, prima ancora che sulla sfera civile, tanto cara a questa pseudo-sinistra convinta che il diritto ad unirsi civilmente prevalga sul diritto a vivere dignitosamente in coppia (e a riguardo, Compagni, provate ad abbandonare quell'ipocrisia tutta boldriniana e chiedete ad una coppia omosessuale cosa mai preferirebbe tra il vivere da sposati - cosa sacrosanta in una società evoluta, beninteso - ma in povertà o, viceversa, tra il vivere da coppia di fatto in dignità). Occorrerebbe forse scendere da questo piedistallo e provare a comprendere quanto le battaglie sui diritti civili siano nulle se non supportate e accompagnate dalle lotte sui diritti sociali e previdenziali. Occorrerebbe forse scendere da questo piedistallo e comprendere che intere generazioni di disperati - tutti camerieri, lavapiatti, agricoltori e operai con lauree al seguito - sono ormai stanche di ritrovarsi prive di qualsivoglia tutela lavorativa, figli illegittimi del licenziamento ad cazzum e costretti ad oltre trent'anni a sperare in un reddito di cittadinanza o nella pensione dei propri nonni quali fonti di sostentamento. Occorrerebbe forse scendere da questo piedistallo, smetterla di sputare in faccia a quel Popolo che tanto dicono d'amare e chiedersi per quale ragione la scelta più "a sinistra" che il cittadino compie è indirizzata verso partiti che nulla hanno a che spartire con la Sinistra e perché, viceversa, le loro coalizioni "di sinistra" raggiungano a malapena il 20%. Insomma, sarebbe sufficiente comprendere che per arginare una deriva destrista e Leghista la Sinistra dovrebbe ritornare ad esser tale, smettendola di avallare politiche e provvedimenti di centrodestra mascherandosi di rosso ed assumendo la denominazione di "centrosinistra", ritornando a parlare di dignità e Lavoro. Ecco, solo dopo esservi soffermati su tutto ciò potrete pensare di abolire il diritto di voto... a partire dal vostro. Ma del resto, Compagni tutti, ci sarà pur un motivo se da trent'anni a questa parte quella (pseudo)sinistra italiana - molto più bianca come la Democrazia Cristiana che non rossa come l'avvenire - è risultata essere la sinistra peggiore d'Europa.

giovedì 1 agosto 2019

Censura

Insomma, ci hanno impiegato tre anni a trovarmi ma alla fine anche Vimeo, dopo Youtube, mi ha cancellato l'account per violazione dei copyright, a causa delle puntate di Boris sottotitolate in inglese. C'e' qualcuno la' fuori che non vuole che Boris diventi popolare presso un pubblico anglosassone, o qualcosa del genere. Inutile dire che trovero' un altro portale su cui caricare i video, o al massimo ne apriro' uno io. Perche' la censura non ferma l'arte, l'informazione, la protesta, la lotta. Seguiranno presto aggiornamenti.

venerdì 24 maggio 2019

Cultura è la parola chiave per un’altra Europa

«Steve Bannon, ideologo del sovranismo identitario è sceso in un Grand Hotel parigino per portare una buona parola xenofoba alle persone sofferenti», così il direttore di Liberation, Laurent Joffrin, racconta l’avanzata delle destre nazionaliste suprematiste e fondamentaliste cristiane in Europa. Come è noto l’ex consigliere di Trump si è precipitato in Europa, e in Italia in particolare, per radunare crociati puntando a disgregare l’Unione. Anche se il suo è un esercito di egoismi nazionalisti pronti a mettersi gli uni contro gli altri, è interessante chiedersi perché si sia mosso da Oltreoceano per gettarsi in questa concione. Ciò che appare evidente è che un’Europa forte politicamente unita e democratica potrebbe dar fastidio agli Usa. Se Bruxelles attuasse un green new deal, ascoltando la voce degli scienziati e dei giovanissimi che sono scesi in piazza nei Fridays for future, potrebbe guastare gli interessi delle multinazionali. Ma c’è di più. Un’Europa aperta, laica, democratica, solidale, attenta ai diritti sociali e civili non dà noia solo alle destre, in senso stretto, ma anche ai neoliberisti che predicano l’austerity e che, dopo la crisi del 2008, ancora parlano, come se nulla fosse, di auto regolamentazione del mercato. In giro se ne incontrano ancora parecchi, da Macron a Calenda.


In comune con le destre sovraniste i neoliberisti hanno l’ossessione di alzare muri, di presidiare confini, di costruire eserciti, bloccare la libertà di movimento dei migranti (soprattutto se migranti economici). Non è questa l’Europa che vogliamo! Su Left lo andiamo dicendo da molto tempo, provando ad immaginare un’altra Europa possibile, numero dopo numero del settimanale; ora anche con un libro L’Europa rapita con contributi di politologi, economisti, filosofi, uomini e donne di cultura. Ed è questa per noi una parola chiave: “cultura”. Oltre che un’Europa fondata sull’uguaglianza, sulla giustizia sociale, sul welfare, sul rispetto dei diritti umani,  sogniamo un’Europa meticcia che, lungi dal brandire la propria identità come una clava, sia attraversata dal dialogo interculturale, aperta ai Paesi del Mediterraneo, senza confini. In barba ai crociati di ieri e di oggi che cercano di imporre il falso dogma delle radici cristiane. Basta dare un’occhiata alla storia per scoprire che si tratta di una assurdità. Pensiamo, solo per fare un esempio, al grande contributo della cultura araba che ha animato centri culturali raffinatissimi in Spagna e nella penisola, dalla corte di Federico II in Sicilia al Rinascimento fiorentino, che non avrebbe mai scoperto la prospettiva senza gli studi di ottica degli scienziati arabi. La verità storica è che le radici dell’Europa sono quanto mai polifoniche, risuonano di accenti differenti, hanno mille colori diversi. Unità nella varietà, questa è la vera ricchezza dell’Europa. E da questo tesoro dovremmo ripartire per una nuova Unione fondata sulla cultura, sulla conoscenza, su un’idea di benessere dei cittadini che non si limiti al soddisfacimento dei bisogni, ma ambiziosamente sostenga il pieno sviluppo personale e creativo dei cittadini. Per questo, se non fosse una parola che suona finta e usurata nelle proposizione fittizia e plastificata che ora ne fa Macron, diremmo che all’Europa serve un nuovo Rinascimento, un rinnovato umanesimo. Per combattere i rigurgiti nazionalisti e neoliberisti che in comune hanno la religione del profitto (di pochi) e una visione anaffettiva e disumanizzante, serve un pensiero nuovo di sinistra, con una visione profonda della realtà umana, un’«onda rossa» per dirla con Mimmo Lucano, che abbia la fantasia di immaginare un modo diverso di stare insieme, di fare società. Serve un’Europa di sinistra che investa nella scuola, nell’università, nella formazione continua, che punti con coraggio sulla ricerca scientifica e sullo sviluppo tecnologico per potenziare l’umano (e non per creare disoccupazione). Un percorso in questo senso è avviato da secoli, basta pensare alla “rete” delle università medievali, ma rischia di rimanere incompiuto, se pensiamo che solo il 2 per cento dei laureati ha partecipato al progetto Erasmus dal 1987 ad oggi. In questi giorni, molte iniziative ricordano i 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci, esempio di poliedrico artista e scienziato, europeo ante litteram, umanista dalla fantasia inarrestabile e cosmopolita. Ma se il presidente francese Macron sciovinisticamente impone anche alla lettura della storia dell’immigrato Leonardo un paradigma assimilazionista, esponenti della destra italiana come Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia (che ha candidato alle europee il pronipote del Duce Caio Mussolini) vorrebbero ascrivere alla sola stirpe italica il genio che scelse di varcare le Alpi portando con sé La Gioconda. Et voilà. Non sono questi i personaggi ai quali vogliamo consegnare l’Europa.

mercoledì 1 maggio 2019

Dificil Equilibrio - Trayecto (2000)

Trayecto e' il terzo e probabilmente miglior album della band spagnola Dificil Equilibrio, dedita ad un heavy prog con forti influenze crimsoniane, direi soprattutto del periodo settantino. Si tratta di un power trio senza cantante che ben rende atmosfere scure, opprimenti, nervose; canzoni molto ritmiche e cangianti, sempre divertenti ed interessanti, che sanno catturare l'attenzione

dell'ascoltatore; il flusso musicale continuo e i numerosi cambi di tempo non danno un attimo di tregua, il lavoro scorre fluido e senza momenti di stanca. Le uniche informazioni che sono riuscito a reperire riguardo il gruppo dicono che sono originari della provincia di Barcellona, sono attivi dal 1995 (seppur esista un album datato 1988 che e' probabilmente una raccolta di canzoni dei tre musicisti prima che formassero la band) e si dividono cosi' la scena: Alberto Diaz alla chitarra, Enric Gisbert al basso e Luis Rodriguez alla batteria. Questo e' tutto cio' che so sul loro conto, a meno che non mi metta a leggere le interviste in spagnolo, cosa che potrei pur fare ma non nutro tutto questo interesse nei loro confronti. Mi basta appurare che quello in questione e' un gran album e merita sicuramente di far parte di ogni collezione che si rispetti; l'energia che i tre mettono nella loro produzione musicale e' sicuramente il marchio di fabbrica del gruppo, il quale altrimenti risulterebbe semplicemente come un clone dei King Crimson, inoltre gli spunti doom uniti a quelli jazz, le distorsioni e l'industrial sono si' elementi che troviamo nella band inglese, ma i nostri amici spagnoli ne fanno un uso piu' largo e meglio sviluppato.
In generale, il suono complessivo della band e' innegabilmente sofisticato, con un tocco raffinato di rumorismo e minimalismo: non sembra di ascoltare un power trio, la musica dei Dificil Equilibrio funziona piu' come un insieme coeso in cui ogni singolo membro si mette a disposizione e lavora a beneficio degli altri due. Il breve apripista Compulsión si basa su una serie accattivante di progressioni di accordi ad alta velocita', a cui fa seguito il misterioso ed inquietante Mudan Las Palabras, che vede il gruppo spagnolo addentrarsi nell'esplorazione dei territori fusion del contesto Crimsoniano, e merita una menzione speciale l'intelligente uso dello spazio vuoto da parte del bassista ed il breve assolo di chitarra incluso nell'intermezzo. I brani seguenti seguono quasi tutti lo stesso schema: ci sono momenti in cui sembrano consapevolmente flirtare con la pericolosita' dello strappo e del brusco cambio di tempo (come in Hostilidad Simétrica ​​e nel La Lógica del Vampiro), ed altri in cui si lasciano andare a melodie piu' costanti e regolari. Trayecto IV e la successiva Trayecto compongono un pezzo jazzistico a due sezioni che vede la band concentrarsi ed insistere su espansioni di motivi semplici alla base ma aperti a innumerevoli evoluzioni e variazioni: l'interazione fra i musicisti e' precisa e fluida, ma nonostante l'impressione di trovarsi di fronte ad un album freddo e calcolatamente tecnico, in realta' si tratta di un vero lavoro di introspezione tradotto in termini musicali, iniziando nella prospettiva di una languida contemplazione e poi trasformandosi in un atteggiamento moderatamente esultante (ovviamente queste sono le impressioni che ha dato a me personalmente, ricordo che si tratta di un lavoro interamente strumentale). I frangenti piu' hard sono condensati nelle ultime tre tracce: Vigilia e Retrofremovium #01 sono due escursioni che ricordano il lato piu' decostruttivo degli Henry Cow; la traccia di chiusura Self Portrait mostra un potente motivo hard rock prima di proporre due minuti di silenzio seguiti da un assolo di chitarra che chiude quindi l'album.
Tecnicamente una lavoro impeccabile, la musica e' per lo piu' incentrata sul complesso lavoro chitarristico di Alberto Diaz e sulla sezione ritmica adiacente, condita da numerosi effetti sonori e distorsioni, e descrive un complicato hard prog strumentale con un po' di spazio per rumori di traffico automobilistico, jam semi improvvisate, pesanti dissonanze e ritmiche che presentano infiniti cambi. Forse manca un po' di diversita' strumentale, ma la dinamica e l'energia sono di prima classe.

sabato 13 aprile 2019

Sofferenza e vanto: sono juventino.

Essere juventino è diverso, essere juventino non è più importante di essere tifoso di un'altra squadra, è diverso, essere juventino è un atto di fede, una missione. L'essere tifoso di una squadra è un qualcosa difficile da spiegare a chi non lo è, per qualsiasi tifoso di qualsiasi squadra è un sentimento profondo, una passione, uno è tifoso di una squadra appena nasce e forse anche prima. Perché solitamente è una cosa che si tramanda, si cresce e senza saperlo si ha già una maglia addosso di un colore e un numero, che è ovviamente l'idolo del proprio padre. Non ci si spiega il perché, non ce lo chiediamo nemmeno, ma è così punto. Nel corso della nostra vita cambieremo tante cose, leggere e importanti, ma MAI la squadra del cuore, qualsiasi essa sia e qualsiasi cosa succeda, MA essere juventino è diverso. Sembra un'eresia, perché la Juventus è una squadra che solitamente dà più soddisfazioni che delusioni, che in Italia è la più vincente e in Europa è, comunque, tra le più importanti, eppure essere juventino è diverso, difficile e spesso frustrante.
In Italia, nonostante ci siano tante squadre, esistono in realtà solo due tifoserie, gli juventini e gli anti Juve. Spesso vengo insultato a prescindere, anche da chi non conosco, dai soliti leoni da tastiera che oggigiorno sono presenti nelle nostre vite. Quando parli con qualcuno non vieni nemmeno preso in considerazione, "tanto voi rubate e pagate gli arbitri", l'avrò sentita mille volte. Essere juventino significa dover guardare ogni partita e alla prima rimessa laterale invertita, già sai che quella vittoria sarà contestata. Essere juventino vuol dire che ti devi sempre difendere e mai azzardarti ad attaccare, perché diventi arrogante e presuntuoso. Essere juventino vuol dire che devi stare zitto, permettere a tutti gli altri di mettere in dubbio ogni vittoria, ogni trofeo. Essere juventino vuol dire che in certe zone d'Italia non puoi permetterti di girare con la maglia della tua squadra, rischieresti grosso. Essere juventino vuol dire che se la Juve subisce un torto arbitrale, devi sempre e comunque stare zitto, perché non è mai paragonabile ai favori avuti, e c'è sempre qualcuno che tira fuori Ronaldo o Turone, e mai il diluvio universale di Perugia, chissà perché. Essere juventino significa che hai visto i caroselli un strada e la gente festeggiare la tua retrocessione. Essere juventino significa che quando giochi in Champions non giochi solo contro la squadra avversaria, ma c'è mezza Italia pronta a festeggiare una tua sconfitta. Essere juventino vuol dire anche prendersi del mafioso, che ciò che hai vinto è lordo, che ogni partita c'è sempre una lente di ingrandimento che trova un qualcosa che non va, anche quando non c'è.
Essere juventino significa essere l'alibi perfetto per chiunque non vinca. A volte vorrei essere tifoso di una squadra tipo Genoa, Sassuolo, Empoli, non vincerai niente ma vivrai sereno e onesto per sempre, almeno nel parere collettivo, puoi parlare di calcio e puoi pure lamentarti di un arbitraggio, cosa impensabile per noi. Essere juventino è avere più cicatrici che gioie in Europa, è essere sbeffeggiato ad ogni eliminazione, o, meglio ancora, in una finale persa, manco l'avessero vinta loro. Essere juventino vuol dire trovare sempre qualcuno che ti ricorda calciopoli, anche se abbiamo pagato, e solo noi, poi siamo tornati più forti di prima. Ma... essere juventino è anche molto di più. È essere orgoglioso di avere visto con quella maglia molti dei più forti giocatori del mondo. Da Sivori, Boniperti e Charles, a Zoff, Scirea e Platini, da Buffon Del Piero Trezeguet, Cannavaro Thuram, Pirlo, Tevez, fino a Cristiano Ronaldo, e molti molti altri. È essere con orgoglio la prima squadra ad aver raggiunto la prima stella... poi la seconda e infine la terza. È aver visto Vialli alzarla a Roma, aver visto nascere e crescere il capitano Del Piero, fino a quella linguaccia irriverente che sapeva di rivincita. È esser stati ad un passo dal paradiso ed essersi svegliati all'inferno in quel 2006, ma all'inferno con il capitano e gli altri campioni del mondo, che ci sono scesi con noi per tornare in paradiso. Perché la Juve, solitamente, prima sceglie gli uomini e poi gli atleti, e in questo senso abbiamo avuto molte soddisfazioni. Siamo con orgoglio la squadra di una famiglia, da sempre, tifosa e ambiziosa, non abbiamo ceduto a sceicchi, arabi russi o cinesi. Stiamo scrivendo la storia con la conquista dell'ottavo scudetto consecutivo, roba da leggenda. Abbiamo vissuto serate indimenticabili contro Real Madrid, Barcellona, Manchester United. Abbiamo una mentalità che è uno stile di vita, non tutti possono indossare la nostra maglia. Siamo quelli che le finali le perdono, è vero, ma non piangiamo, non accusiamo nessuno delle nostre sconfitte, noi, ma con quel sogno dentro ci proviamo ogni anno, ogni anno ci siamo, noi, ogni anno gioiamo, piangiamo, facciamo gioire gli altri, ma non molliamo mai, noi! Quando mi sento amareggiato da tanta cattiveria, polemica, veleno, con la mente ritorno nella mia cameretta da bambino, dove avevo poster e ritagli di giornale, dove avevo una radiolina per ascoltare le partite, e con una pallina di spugna imitavo le azioni che sentivo dalle voci di Ciotti, Ameri ecc.. Sono juventino, è difficile, ma ne vado fiero.
Articolo originale

sabato 12 gennaio 2019

There Is No Alternative

Dunque, riassumendo: è andato in pezzi un certo patto tra le élites e la gente, e adesso la gente ha deciso di fare da sola. Non è proprio un'insurrezione, non ancora. È una sequenza implacabile di impuntature, di mosse improvvise, di apparenti deviazioni dal buon senso, se non dalla razionalità. Ossessivamente, la gente continua a mandare - votando o scendendo in strada - un messaggio molto chiaro: vuole che si scriva nella Storia che le élites hanno fallito e se ne devono andare.
Come diavolo è potuto succedere? Capiamoci su chi sono queste famose élites. Il medico, l'insegnante universitario, l'imprenditore, i dirigenti dell'azienda in cui lavoriamo, il Sindaco della vostra città, gli avvocati, i broker, molti giornalisti, molti artisti di successo, molti preti, molti politici, quelli che stanno nei consigli d'amministrazione, una buona parte di quelli che allo stadio vanno in tribuna, tutti quelli che hanno in casa più di 500 libri: potrei andare avanti per pagine, ma ci siamo capiti. I confini della categoria possono essere labili, ma insomma, le élites sono loro, son quegli umani lì.
Sono pochi (negli Stati Uniti sono uno su dieci), possiedono una bella fetta del denaro che c'è (negli Stati Uniti hanno otto dollari su dieci, e non sto scherzando), occupano gran parte dei posti di potere. Riassumendo: una minoranza ricca e molto potente.
Osservati da vicino, si rivelano essere, per lo più, umani che studiano molto, impegnati socialmente, educati, puliti, ragionevoli, colti. I soldi che spendono li hanno in parte ereditati, ma in parte li guadagnano ogni giorno, facendosi un mazzo così. Amano il loro Paese, credono nella meritocrazia, nella cultura e in un certo rispetto delle regole. Possono essere di sinistra come di destra. Una sorprendente cecità morale - mi sento di aggiungere - impedisce loro di vedere le ingiustizie e la violenza che tengono in piedi il sistema in cui credono. Dormono dunque sereni, benché spesso con l'ausilio di psicofarmaci.
Forti di questo andare per il mondo vivono in un habitat protetto che ha poche interazioni con il resto degli umani: i quartieri in cui vivono, le scuole a cui mandano i figli, gli sport che praticano, i viaggi che fanno, i vestiti che indossano, i ristoranti in cui mangiano: tutto, nella loro vita, delimita una zona protetta all'interno della quale quei privilegiati difendono la loro comunità, la tramandano ai figli e rendono estremamente improbabile l'intrusione, dal basso, di nuovi arrivi.
Da quell'elegante parco naturale, tengono per i coglioni il mondo. Oppure, volendo: lo tengono in piedi. Se non addirittura: lo salvano.
Ultimamente ha preso piede la prima versione. Ed è lì che è saltato quel tacito patto di cui parlavamo, e che descriverei così: la gente concede alle élites dei privilegi e perfino una sorta di sfumata impunità, e le élites si prendono la responsabilità di costruire e garantire un ambiente comune in cui sia meglio per tutti vivere. Tradotto in termini molto pratici descrive una comunità in cui le élites lavorano per un mondo migliore e la gente crede ai medici, rispetta gli insegnanti dei figli, si fida dei numeri dati dagli economisti, sta ad ascoltare i giornalisti e volendo crede ai preti. Che piaccia o no, le democrazie occidentali hanno dato il meglio di sé quando erano comunità del genere: quando quel patto funzionava, era saldo, produceva risultati.
Adesso la notizia che ci sta mettendo in difficoltà è: il patto non c'è più.
Ha iniziato a traballare una ventina d'anni fa, ora si sta sbriciolando. Lo sta facendo più in fretta dove la gente è più sveglia (o esasperata): l'Italia, ad esempio. La gente qui ha iniziato a non fidarsi neanche più dei medici, o degli insegnanti. Quanto al potere politico, prima lo ha affidato a un super-ricco che odiava le élites (trucco che poi gli americani avrebbero copiato), poi ha provato un'ultima volta con Renzi, scambiandolo per uno che non c'entrava con le élites: alla fine ha decisamente stracciato il patto e se n'è andata direttamente a comandare.
Cos'è che li ha fatti così arrabbiare?
Una prima risposta è facile: la crisi economica. Intanto le élites non l'avevano prevista. Poi hanno tardato ad ammetterla. Infine, quando tutto ha iniziato a franare, hanno messo al sicuro se stesse e hanno rimbalzato i sacrifici sulla gente. Possiamo dire, ripensando alla crisi del 2007-2009 che sia accaduto veramente questo? Non lo so con certezza, ma è vero che la percezione della gente è stata quella. Dunque, superata l'emergenza, la gente si è presentata a regolare i conti, per così dire. È andata, letteralmente, a riprendersi i propri soldi: il reddito di cittadinanza, o il cancellamento delle cartelle di Equitalia, non sono altro che quello. Non sono politica economica o visioni del futuro: sono riscossione crediti.
La seconda ragione è più sofisticata e l'ho veramente capita solo quando mi son messo a studiare la rivoluzione digitale e ho scritto The Game. La riassumerei così. Tutti i device digitali che usiamo quotidianamente hanno alcuni tratti genetici comuni che vengono da una certa visione del mondo, quella che avevano i pionieri del Game. Uno di questi tratti è decisamente libertario: polverizzare il potere e distribuirlo a tutti. Tipico esempio: mettere un computer sulla scrivania di tutti gli umani. Potendo, nelle tasche di ogni umano. Fatto. Non va sottovalutata la portata della cosa. Oggi, con uno smartphone in mano, la gente può fare, tra le altre cose, queste quattro mosse: accedere a tutte le informazioni del mondo, comunicare con chiunque, esprimere le proprie opinioni davanti a platee immense, esporre oggetti (foto, racconti, quello che vuole) in cui ha posato la propria idea di bellezza. Bisogna essere chiari: questi quattro gesti, in passato, potevano farli solo le élites. Erano esattamente i gesti che fondavano l'identità delle élites. Nel Seicento, per dire, erano forse qualche centinaio le persone che in Italia potevano farli. Ai tempi di mio nonno, forse qualche migliaio di famiglie. Oggi? Un italiano su due ha un profilo Facebook, fate voi.
Così - occorre capire - il Game ha abbattuto delle barriere psicologiche secolari, allenando la gente a sconfinare nel terreno delle élites e togliendo alle élites quei monopoli che la rendevano mitologicamente intoccabile. È chiaro: da lì in poi la situazione prometteva di diventare esplosiva. Non sarebbe forse successo niente se non fosse per un altro tratto del Game, una sua imprecisione fatale. Il Game ha ridistribuito il potere, o almeno le possibilità: ma non ha ridistribuito il denaro. Non c'è nulla, nel Game, che lavori a una ridistribuzione della ricchezza. Del sapere, della possibilità, dei privilegi, sì. Della ricchezza, no. La dissimmetria è evidente. Non poteva che ottenere, alla lunga, una rabbia sociale che è dilagata silenziosamente come un'immensa pozzanghera di benzina.
Devo aver già detto che poi la crisi economica ci ha tirato un fiammifero dentro. Acceso.
Dopo, quel che è successo lo sappiamo. Ma non sempre lo vogliamo veramente sapere. Riassumo io, per comodità. La gente, senza perdere un certo aplomb, si è recata a prendere il potere; perfino in modo composto, ma con una sicurezza di sé e un'assenza di timore reverenziale che da tempo non si vedeva. Lo ha fatto, per lo più, votando. Cosa? Il contrario di quello che suggerivano le élites. Chi? Chiunque non facesse parte delle élites o fosse odiato dalle élites. Quali idee? Qualsiasi idea che fosse l'opposto di cosa avevano in mente le élites. Semplice, ma efficace. Posso fare un esempio sgradevole che però riassume bene la situazione? L'Europa.Quella dell'unità europea è chiaramente un'idea forgiata dalle élites. Di certo non l'ha chiesta la gente, scendendo in strada e invocandola a gran voce. È un'intuizione di pochi illuminati che si può facilmente spiegare così: spaventata da cosa era riuscita a combinare nel '900, e incalzata dalle due grandi potenze americana e sovietica, l'élite europea ha capito che le conveniva piantarla lì con questa lotta selvaggia e secolare, tirare giù le frontiere e formare un'unica forza politica ed economica. Naturalmente non era un piano di facilissima realizzazione. Per secoli l'élite aveva lavorato a costruire il sentimento nazionalista, di cui aveva avuto bisogno per affermarsi, e perfino l'odio per lo straniero, che le era stato utile quando si era trattato di menar le mani: adesso bisognava smontare tutto, e invertire il senso di marcia. Prima le erano serviti milioni di soldati, adesso le servivano milioni di pacifisti. Gente che aveva da poco finito di sgozzarsi l'un l'altro con la baionetta in mano avrebbe dovuto trasformarsi in un unico popolo, con una moneta comune e un'unica bandiera: non proprio un passeggiata.
Per questo, con indubbia abilità, l'élite impose un modello di unità europea che potremmo definire ad alta drammaticità: una volta fatta, l'unità doveva diventare irreversibile. Bruciarono le navi alle spalle, per evitare che alla gente (o magari anche alle frange dissidenti delle élites) potesse venire voglia di tornare indietro. Non lo avrebbero fatto perché era tecnicamente impossibile farlo. Se alla gente veniva qualche dubbio, il metodo era la pazienza: su Le Monde Diplomatique (non esattamente un organo di informazione populista) mi è accaduto di leggere, recentemente, una bel riassuntino che mi permetto di copiare e incollare qui: "Nel 1992, i Danesi hanno votato contro il trattato di Maastricht: sono stati obbligati a tornare alle urne. Nel 2001 gli Irlandesi hanno votato contro il trattato di Nizza: sono stati obbligati a tornare alle urne. Nel 2005 i Francesi e gli Olandesi hanno votato contro il trattato costituzionale europeo (Tce): gliel'hanno poi imposto con il nome di Trattato di Lisbona. Nel 2008 gli Irlandesi hanno votato contro il trattato di Lisbona: sono stati obbligati a tornare alle urne. Nel 20015, il 61,3% dei Greci ha votato contro il piano di austerità di Bruxelles: gli è stato inflitto lo stesso". Impressionante litania, bisogna ammetterlo. Dice che un piano B non c'era. There Is No Alternative.
Il tratto limpidamente elitario dell'Europa Unita si è rafforzato quando, fatta l'Europa, si è sedimentato il sistema di potere europeo: le istituzioni, gli organi di governo, e perfino le personalità deputate a governare. Difficile immaginare qualcosa che renda meglio l'idea di un'élite magari sapiente ma lontana, irraggiungibile, detentrice di ragioni e numeri incomprensibili, e scarsamente consapevole della vita reale della gente. Non è escluso che nel frattempo facciano anche molte cose a favore della gente: ma certo la loro prima funzione sembra essere quella di ricordare in modo definitivo che il pianoforte c'è chi lo suona e chi lo porta su per le scale, e a suonarlo, qui, è l'élite.
Così, nell'istante in cui ne ha avuto basta del patto, la gente si è voltata verso di loro, subito: l'Europa era il simbolo più evidente, era il bersaglio immediatamente visibile all'orizzonte. Aveva un'aura di invincibilità che però, si è scoperto il giorno dopo il referendum sulla Brexit, funzionava solo per le élites: per gli altri cittadini del Game, l'incantesimo si era spezzato.
Potremmo dire, alla luce di tutto questo, che la gente è contro l'Europa? No, non potremmo veramente dirlo. Contro questa Europa, piuttosto, contro l'Europa come simbolo del primato delle élites, questo sì. Antieuropeista, oggi, significa più che altro anti-élite. Circola già la formuletta buona: l'Europa dei popoli. Non vuole dire niente ma vuol dire una cosa chiarissima: non è l'unità in sé che vogliamo spezzare, è l'unità voluta e gestita in quel modo dalle élites.
L'Europa è solo un esempio. Quel che sto cercando di dire è che soppesare l'opportunità di tutto ciò che la gente oggi sembra volere (che sia il ritorno alla Lira come la gogna della Società Autostrade o la libertà sui vaccini) è una perdita di tempo se non si legge in filigrana l'unica cosa che davvero la gente vuole: liberarsi delle élites. Il punto è quello, ed è lì che si ci si deve chinare e osservare bene, per quanto faccia schifo, o paura, o fatica. Perché è in quel preciso punto che si gioca una battaglia decisiva per il nostro futuro.
La prima cosa che accadrà di notare, volendo davvero andare a guardare là dentro, è come si è mossa l'élite una volta che si è trovata sotto attacco. Si è irrigidita nelle proprie certezze allestendo rapidamente una narrazione che mettesse le cose a posto: la gente si era bevuta il cervello, probabilmente manovrata da una nuova generazione di leader privi di responsabilità, disposti a giocare sporco, e furbi nel rivolgersi alla pancia dei cittadini dribblandone l'eventuale intelligenza. Termini vaghi e inesatti come fake news, populismo, se non addirittura fascismo, sono stati ingaggiati per veicolare meglio il messaggio a etichettare sommariamente gli insorti. Sullo sfondo, una certezza: There Is No Alternative, ripetuta come un mantra, coltivata come un'ossessione, inflitta come una profezia e una minaccia.
Neanche per un attimo, sembrerebbe, l'élite si è fermata a chiedersi se per caso non avesse sbagliato da qualche parte, e in modo così marchiano da generare, a slavina, quel gran casino. Se l'avesse fatto, non le sarebbe stato poi così difficile registrare almeno tre fenomeni che a me, come a molti, sembrano di un'evidenza solare: 1. La sua idea di sviluppo e di progresso non riesce a generare giustizia sociale, distribuisce la ricchezza in un modo delirante, distrugge lavoro più di quanto riesca a generarne, lascia il centro del gioco a potenze economiche scarsamente controllabili, continua a essere fondata su un feroce controllo di intere zone deboli del pianeta e mette in serio pericolo la Terra, dimenticandosi che è la casa di tutti, non la discarica di pochi. 2. Le élites sono da tempo preda di un torpore profondo, una sorta di ipnosi da cui declinano un pensiero unico, allestendo raffinati teoremi i cui risultato è sempre lo stesso, totemico: There Is No Alternative. Si sarà notato che non reagiscono più a nulla, sono ipnotizzate da se stesse, hanno perso completamente contatto con la vita che fa la gente, spendono più della metà del tempo a contemplarsi e arredare i propri privilegi.
Stanno arrestando la storia, e allevando degli eredi incapaci di pensare qualcosa di diverso dalle ossessioni dei padri. 3. Una sola volta, negli ultimi cinquant'anni, le élites hanno generato un pensiero alternativo: ed è stato quando le son sfuggiti alcuni contro-pensatori, più che altro tecnici, dalla cui eresia è poi nata l'insurrezione digitale. Dal loro torpore, le élites l'hanno registrata in ritardo, bollandola come una deriva commerciale di dubbio gusto e pensando di risolverla così. Era invece una rivoluzione che si proponeva di azzerare proprio loro, le élites novecentesche, e di sostituirle con una nuova élite, una nuova intelligenza, perfino una nuova moralità. Non ci hanno capito niente, e questo vuol dire che il Game è cresciuto tra le pieghe del loro potere, e a poco a poco le ha delegittimate, consegnandole alla gente quando ormai non avevano la forza per difendersi. Nel tempo in cui questo accadeva, l'unico riflesso brillante delle élites è stato usare il Game per fare soldi: che vendessero le reliquie del Novecento o finanziassero start up, si sono messi a vendere i biglietti per assistere alla propria condanna a morte. Strano modo di cavalcare la Storia. Fai errori del genere e poi, con chi si presenta a staccarti la spina, pensi di cavartela dandogli del fascista?
Altrettanto interessante, va detto, è andare a vedere come si è mossa la gente, quando ha deciso di sfasciare il patto e fare da sola. Potenzialmente aveva davanti una sorta di nuovo orizzonte, immenso: ma si è fermata al primo passo, quello della resa dei conti pura e semplice. Rimandati i sogni, sfoga risentimento. Incapace di futuro, recupera il passato. Si è scelta leader che le offrono una vendetta quotidiana e una retromarcia al giorno: è quello che sanno fare. Non riescono a immaginare un granché, si limitano a cercare di correggere l'esistente ereditato dalle élites. Spesso non riescono nemmeno tanto a farlo, per incompetenza, scarsa attitudine al governo, improvvisa scoperta dei propri limiti, obbiettiva tostaggine del nemico e vertiginosa complessità del sistema. Ritrovano coraggio in un sorta di tono di voce che è divenuta il loro vero segno distintivo, un misto di schiettezza, aggressività, urlo da mercato e slogan pubblicitario.
La gente lo trova rassicurante e ha finito per assumerlo come un modo di pensare: ci trova una sorta di intelligenza elementare che sostituisce alle raffinatezze e ai sofismi della riflessione delle élites il movimento limpido, diretto, vagamente virile, a suo modo puro, di uomini che finalmente vano diritti alle cose, smantellando vecchi trucchi e ipocrisie. La santificazione di questo modo di pensare - è necessario capire - è l'arma con cui la gente, oggi, sta sferrando l'aggressione più violenta alle élites: è la vera breccia che sta aprendo nelle loro mura difensive. Se passa quel modo di leggere il mondo, le élites sono spacciate. Finita la pacchia. Il punto che a me, come a molti altri, risulta di un'evidenza solare è che una vittoria di questo genere avrebbe un prezzo devastante: non per le élites, chissenefrega, ma per tutti. Perché il mito di un accosto diretto, puro e vergine alle cose, opposto all'andatura decadente, complicata e anche un po' narcisistica della riflessione colta, è una creatura fantastica che ci abbiamo messi secoli a smascherare: recuperarla sarebbe da dementi. Da un sacco di tempo abbiamo imparato che è meglio sapere molto delle cose prima di cambiarle, che è meglio conoscere molti uomini per capire se stessi, che è meglio condividere i sentimenti degli altri per gestire i nostri, che è meglio avere molte parole piuttosto che poche perché vince chi ne sa di più.
Abbiamo un termine per definire questo modo di difenderci dalla durezza feroce della realtà grazie all'uso paziente e raffinato dell'intelligenza e della memoria: cultura. Sostituirla con l'apparente chiarezza di un pensiero elementare, quasi una sorta di furbizia popolare, equivale a disarmarsi volontariamente e andare al massacro. Voglio essere chiaro: ogni volta che ci facciamo bastare certe parole d'ordine di brutale semplicità, noi bruciamo anni di crescita collettiva spesi a non farci fottere dall'apparente semplicità delle cose: non noi élites, sto parlando di tutti quanti. Ci condanniamo a prendere cantonate colossali. Che so, considerare un'importante minaccia al nostro benessere l'ovvio transumare di un numero in fondo contenuto di umani da continenti che abbiamo stritolato e continuiamo a tenere per le palle. Cose così. Enormità. Alla fine, occorre registrare un fenomeno che a me, come a molti altri, sembra di una evidenza solare: la gente si sveglia ogni giorno per andare all'assalto della fortezza delle élites: e più lo fa, e più vince, più si fa del male.
Così attraversiamo tempi cupi, e siamo come terra in cui passano eserciti, saccheggiando. Nessuno sembra in grado di vincere, per cui è difficile vedere la fine. Ogni giorno che passa, diminuiscono le scorte: di forza, di bellezza, di rispetto, di umanità, perfino di umorismo. Niente che non abbiamo già vissuto, in passato: ma noi che non immaginavamo questo, è questo che dobbiamo proprio vivere? C'è qualcosa che possiamo fare, per cambiare l'inerzia di questa disfatta?
Che io sappia, ammettere che la gente ha ragione. Riprendere contatto con la realtà e accorgersi del casino che abbiamo combinato. Mettersi immediatamente al lavoro per ridistribuire la ricchezza. Tornare a occuparci di giustizia sociale. Staccare la spina alle vecchie élites novecentesche e affidarsi alle intelligenze figlie del Game: farlo con la dovuta eleganza ma con ferocia. Dare un significato nuovo a parole come progresso e sviluppo, quello che hanno è ormai avvelenato. Liberare le intelligenze capaci di portarci fuori dal pensiero unico del There Is No Alternative. Smetterla di dare alla politica tutta l'importanza che le diamo: non passa da lì la nostra felicità. Tornare a fidarci di coloro che sanno, appena vedremo che non sono più gli stessi. Buttare via i numeri con cui misuriamo il mondo (primo fra tutti l'assurdo Pil) e coniare nuovi metri e misure che siano all'altezza delle nostre vite. Riacquistare immediatamente fiducia nella cultura, tutti, e investire sull'educazione, sempre. Non smettere di leggere libri, tutti, fino a quando l'immagine di una nave piena di profughi e senza un porto sarà un'immagine che ci fa vomitare. Entrare nel Game, senza paura, affinché ogni nostra inclinazione, anche la più personale o fragile, vada a comporre la rotta che sarà del mondo intero. Usarlo, il Game, come una grande chance di cambiamento invece che come un alibi per ritirarci nelle nostre biblioteche o generare diseguaglianze economiche ancora più grandi. Ritirare su tutti i muri che abbiamo abbattuto troppo presto; abbatterli di nuovo non appena tutti saranno in grado di vivere senza di loro. Lasciare che i più veloci vadano avanti, a creare il futuro, riportandoli però tutte le sere a cenare al tavolo dei più lenti, per ricordarsi del presente. Fare la pace con noi stessi, probabilmente, perché non si può vivere bene nel disprezzo o nel risentimento. Respirare. Spegnere ogni tanto i nostri device. Camminare. Smetterla di sventolare lo spettro del fascismo. Pensare in grande. Pensare. Niente che non si possa fare, in fondo, ammesso di trovare la determinazione, la pazienza, il coraggio.

Alessandro Baricco