giovedì 25 aprile 2024

Fuori di Zukka (Free for All) - 01 - The Deal

Fuori di Zukka, traduzione della serie americana Free For All, e' stata trasmessa in Italia dalla Paramount Comedy, a cavallo fra il 2005 ed il 2006. Ma cio' non conta visto che a me capito' fra le mani sottoforma di cd pirata con tutti gli episodi, e non ricordo assolutamente dove lo trovai o chi me lo diede. Ad ogni modo, e' una delle serie piu' estreme, irriverenti e scorrette che abbia mai visto, ci sono droga, sesso e parolacce, quindi astenersi perditempo.

lunedì 8 aprile 2024

Thy Catafalque - Vadak (2021)

Formati a Makó in Ungheria nel 1998 come duo composto da Tamás Kátai (tastiere, chitarra, basso, programmazione e voce) e János Juhász (chitarra e basso), il progetto diventa una one-man band quando Tamás si trasferisce ad Edimburgo 10 anni dopo, dopo 4 album registrati in coppia. Lasciato libero di comporre la propria idea di musica, Kátai rivoluzionera' il suond dei Thy Catafalque, portandolo da un black metal di seppur discreta fattura, ad un livello che spieghero' durante la descrizione di quest'album. Le note dalla loro pagina Bandcamp ci danno un assaggio di quest'idea: "Thy Catafalque è un’entità metamorfica in continua evoluzione, che mette in mostra un’ingegnosità musicale tanto illimitata quanto audace. Mentre i lavori prendono spunto dallo stile iniziale dei Thy Catafalque, i moderni istinti progressivi della mente di Tamás Kátai prendono il sopravvento, elevando i dischi oltre il regno del metal e creando un suono all'avanguardia che è molto più avanti rispetto al suo tempo."
L'umile genio dei Thy Catafalque, Tamás Kátai, abbandona ogni preconcetto imposto dalla tradizione. Intrecciando elementi provenienti da una vasta gamma di generi non correlati, dal jazz al pop al folk, crea magistralmente un suono eclettico che abbatte qualsiasi barriera o confine generico.
Una critica comune alla musica progressiva o d’avanguardia afferma che è troppo impegnativa, troppo clinica, troppo accademica, troppo autoindulgente. E se questa critica è di per sé un cliché un po’ pigro, ha comunque anche il pregio di essere spesso vera. La musica di Tamás Kátai non è meno ambiziosa, non meno abile dal punto di vista strumentale, e non meno sicura di sé, ma è in una qualche maniera piu' discreta, meno vistosa, meno fine a se' stessa.
Sebbene il lignaggio musicale più chiaro dei Thy Catafalque siano le band black metal della seconda generazione che si avventurarono in territori sempre più indipendenti dal genere alla fine degli anni '90 (in particolare Ulver), ci sono accenni a tutto, da Devin Townsend, Orphaned Land e Giant Squid, agli idiomi folk dell'Europa orientale e al prog espansivo di Yes o King Crimson, ad alcuni dei titani della jazz fusion degli anni '70 (come Return to Forever, Mahavishnu Orchestra, Miles Davis o Weather Report). Aggiungete a questa miscela un sacco di melodeath, post-punk, musica kosmische ed elementi industriali, e francamente vi trovereste di fronte ad un pasticcio terribile se non fosse per la capacità di Kátai di intrecciare queste cose, mettendo a dura prova la propria credibilità. Elementi disparati mescolati in un insieme senza soluzione di continuità, eppur dal suono naturale.

Quella dei Thy Catafalque è una musica posseduta da uno zelo poliglotta: un desiderio di parlare qualunque linguaggio musicale sia necessario per inseguire un sentimento particolare. Ciò significa che immergersi in un nuovo album dei Catafalque richiede un senso di fiducia, fiducia nell’integrità del processo, che consente all’ascoltatore dal cuore aperto di cavalcare la gioia selvaggia di ogni svolta e ritorno imprevisti. La traccia di apertura flirta con alcuni dei materiali più pesanti dell'album, mentre il ritornello si apre in un canto corale tonante e contagioso che ricorda i Paradise Lost nel periodo più pop. Gömböc si chiude con un breakdown pesante, completo di un assolo di basso gorgogliante, ma la sezione centrale ha dei bellissimi sintetizzatori che suonano come marimba o xilofono, con la programmazione della batteria così rapida che quasi confina con il breakbeat. La batteria in Vadak, sebbene chiaramente programmata, ha un suono abbastanza naturale.
Anche quando Kátai raggiunge sonorita' davvero pesanti, c’è una rapidità nella sua strumentazione che conferisce leggerezza di spirito anche all’intensità più estrema. La quarta canzone ne è un esempio particolare, aprendosi come una sorta di pezzo thrash melodeath prima di vagare più lontano. Il titolo della canzone si traduce come “La legge di conservazione dell’energia”, che è un modo perfetto per descrivere la musica dei Thy Catafalque in generale. Anche se le canzoni spaziano dal metal moderno a stili più inusuali, la caratteristica più notevole della musica di Kátai è la fluidità della sua energia. Tutti questi elementi musicali disparati sono mischiati in modo così fluido che anche se non puoi descrivere come sei arrivato dove sei, il viaggio sembra continuo.
Man mano che Vadak si sviluppa (e con ascolti ripetuti), l'architettura della sua durata di oltre un'ora diventa tangibile, con la prima metà dell'album che presenta molti dei suoi momenti più pesanti, coronati dalla mastodontica Móló, che rimane in uno spazio pesante ma si spinge verso l'esterno in modo concentrico, con onde pulsanti di sintetizzatori sempre più complessi e stratificati in modo che nel suo punto medio suoni come un'escursione particolarmente cosmica dei Tangerine Dream. La seconda metà dell'album si estende in territori ancora più avventurosi. Kiscsikó è un pezzo affascinante, basato su una melodia folk, con un ritmo rustico a due tempi e alcuni tocchi aggiuntivi ispirati, tra cui chitarra acustica, percussioni di xilofono e una sezione di fiati quasi in stile mariachi che riecheggia il motivo principale della chitarra, mentre A Kupolaváros Titka è un bellissimo pezzo di trip-hop urban folk/jazz i cui testi evocano il modernismo giocoso di uno scrittore come Italo Calvino. I testi riflettono sulla morte come fine della vita che accomuna tutti, ma dalla prospettiva dell'accettazione e della riflessione piuttosto che della rabbia o della negazione. Accostare l'inevitabile scorrere del tempo con una fantasia di metamorfosi in stile ovidiano potrebbe sembrare un modo per evitare verità spiacevoli, ma invece, l'impressione che ci da' è un qualche tipo di dolore consapevole. La voce dell'ospite Martina Veronika Horváth in tutto l'album fa da bellissimo contraltare alla frequente durezza di quest'ultimo, e colpisce con particolare ricchezza nelle ultime due canzoni dell'album. Vadak (Az Atváltozás Rítusai), il secondo dei due pezzi più lunghi dell'album, ripropone alcuni dei toni più pesanti che si erano ritirati nella seconda metà dell'album galoppando con una lucentezza prog annerita, ma si tuffa anche in una bellissima sezione centrale con violino e alcune linee di sassofono sovrapposte che sembrano ispirate dal Philip Glass Ensemble. Tutto si fonde perfettamente alla fine, con gli ultimi due minuti della canzone che ricordano gli Opeth quando fondano doom e musica da camera.
Vadak è il decimo album dei Thy Catafalque, tralasciando compilation ed EP, e come si addice ad un numero così significativo, è un album davvero degno di nota in una discografia piena di album degni di nota. Vadak è il mio album preferito dei Thy Catafalque ed anche uno dei più pesanti, con un numero elevatissimo di ospiti, contribuendo in numerosi modi alla varietà presente in questo lavoro. Vadak significa "Wildlings" in ungherese, e si rivela un titolo davvero appropriato per un album in sintonia con il mondo selvaggio, con molte canzoni che canalizzano la devozione pagana e l'interpretazione della natura e delle forze che la governano. Il disco si apre con Szarvas e Kátai non perde tempo nel trovare modi per sovvertire le aspettative dell’ascoltatore. Dopo una meravigliosa introduzione di synth, si puo' sentire un senso di anticipazione del groove pesante in cui entrerà da li' a poco la canzone, grazie ad un enorme muro di chitarre e a ritmi esplosivi. Il brano continua a cambiare ed a stravolgere le aspettative, con il contributo vocale di Martina Veronika Horváth (diventata una presenza fissa con la sua quarta collaborazione consecutiva) e del cantante dei Reason Gábor Dudás, nonché il primo di numerosi assoli di chitarra, interpretato da Breno Machado. Ci sono ritmi esplosivi, voci cantate e cantate con audacia e un sottile sintetizzatore: una piccolissima punta dell'iceberg che difficilmente ti prepara per la diversità sonora che verrà riprodotta in seguito. La seconda traccia, Köszöntsd A Hajnalt, suona molto epic o folk metal, grazie al riff pesante, alla forte voce solista di Horváth e al polistrumentista Lochrian Poem Andrei Oltean alla cornamusa. Tuttavia, questa canzone presenta ancora lo stile distinto di Kátai, particolarmente evidente nella sezione di synth, con l'assolo di cornamusa e l'assolo di chitarra di Machado che donano al brano qualcosa in più. Köszöntsd A Hajnalt ti spinge un po' più lontano nel mondo selvaggio dei Thy Catafalque con l'introduzione di voci più serene, evoca un'alba, con le leggere armonie vocali nell'intro e la batteria che risveglia tutte le anime a portata d'orecchio. E' un brano elegante e caldo, che non perde le tinte rock/metal più ruvide con una chitarra prominente e allo stesso tempo discreta. I tre brani successivi, Gömböc, Az Energiamegmaradás Törvénye e Móló, racchiudono perfettamente ciò che amo dei Thy Catafalque: ogni canzone inizia con un riff incredibilmente pesante, e poi ogni canzone diverge e si trasforma in qualcosa di completamente diverso. Gömböc è una tirata metal con doppia cassa, basso eclettico e chitarre trascinanti. C’è del lavoro melodico supremo, principalmente da parte delle chitarre, che fa davvero brillare questo brano. Az Energiamegmaradás Törvénye inizia con un riff thrash schietto ed è, fino a questo punto, una delle cose più pesanti che i Thy Catafalque abbiano mai registrato. Anche in questo caso Kátai prende quello che potrebbe essere un riff abbastanza semplice e lo modella, lo stravolge, lo trasforma in qualcosa di molto, molto più elaborato, ed è un processo incredibile. E questa è solo nella prima metà della canzone, visto che successivamente il suond si sposta verso un metal dal ritmo meno sostenuto, quasi industrial, e poi di nuovo verso qualcosa di vagamente simile ai Cure con chitarre pulite. Móló, nel frattempo, ha un riff dal ritmo più rapido (ma comunque incredibilmente pesante) sostenuto da un groove synth-wave, il quale cresce in modo significativo nella parte centrale della canzone, quando il ritmo prende una marcia in più e il cantante Gábor Veres fa la sua apparizione. Incredibilmente, l'ultimo terzo della canzone cambia nuovamente, accentuando ulteriormente i toni del synth, mentre ritorna il groove del primo terzo, arricchito da acuti vocali in stile Kavinsky, per poi concludere con un autentico vintage dark-wave. Móló è ricoperto di pesantezza metallica, ma modellato con ampie fasce di sintetizzatori. Si tratta di uno dei brani più lunghi degli ultimi dischi dei Thy Catafalque, è una raffica di dieci minuti di origine ultraterrena, tanto quanto tirata fuori dai cavernosi sotterranei della terra; una canzone con un piede nello spazio e l'altro sepolto appena fuori dal nucleo fuso del pianeta. Le cose prendono una piega diversa nelle due tracce successive. A Kupolaváros Titka è uno strano brano retrò, smooth-jazz che mi ricorda alcuni mood di Sunday Lunch di Carpenter Brut. Seguita da Kiscsikó (Irénke Dala), la quale ha un'atmosfera country-western galoppante e un ritmo che inizialmente mi ricorda Theme from Rawhide. Due brani che costituiscono un interessante diversivo. Piros-Sárga è una canzone fantastica, caratterizzata da un ritmo propulsivo, bassi funk, fiati, una varietà di strumenti a percussione e la tastiera caratteristica di Kátai; lavoro condito da una grande performance vocale di András Vörös. È pesante senza essere eccessivamente metal, ed è una perfetta sintesi del suono dei Thy Catafalque. La penultima traccia dell'album, Vadak (Az Átváltozás Rítusai), è probabilmente il coronamento dell'album. È simile nella struttura a Móló, nel senso che è suddivisa in tre parti distinte, che potrebbero facilmente reggersi da sole come tracce individuali. Il riff che alimenta il primo terzo della canzone è probabilmente il riff dei Thy Catafalque più pesante di sempre. Da qui la canzone si sposta verso sintetizzatori e archi lancinanti, sottolineando il terzo contributo vocale di Horváth con ampi assoli di violino e sassofono, prima di passare ancora una volta alla modalità black metal, con le urla annerite di Kátai che trasformano la traccia nella sua forma finale e furiosa. L'album si chiude con la bellissima ed introspettiva Zúzmara, una vecchia canzone rivisitata (estratta da Erika Szobája, l'album ambient del 2005) composta principalmente da pianoforte e alcuni pad di synth che forniscono l'accompagnamento alla migliore performance di Horváth. La sua voce eterea, multitraccia e armonica è accattivante, fornendo la chiusura perfetta per un album incredibile.
Ancora una volta Kátai crea una serie di tracce sperimentali selvagge che rimangono inclassificabili con elementi di vari stili metal, jazz, pop, prog, folk, techno, elettronica e qualsiasi altra cosa che si adatti perfettamente allo schema della sua musica. Mentre ricopre il ruolo di capo supremo e direttore musicale oltre a suonare chitarre, basso, sintetizzatori e voce, Kátai assembla un gruppo sorprendentemente ampio e diversificato di 16 musicisti che aggiungono un gran numero di stili vocali, chitarre, sassofoni, tromboni, tromba, violino, violoncello e tonnellate di strumenti etnici come il durum armeno, le tabla, i dumbek, il riq.
La discografia coerente e prolifica dei Thy Catafalque sembra migliorare sempre di più ad ogni album. Il processo di esplorazione di elementi musicali ultraterreni e la loro graduale integrazione in una base metal estrema solida ed incisiva è stato all'ordine del giorno per Tamás Kátai nell'ultimo quarto di secolo, ed è proprio quell'etica del lavoro in particolare che ha dato i suoi frutti nel lungo periodo.
È chiaro che Vadak è un album più immediato rispetto a tutti i suoi predecessori. Sebbene la pesantezza della sezione ritmica sia notevolmente più evidente, è evidente che Tamás voleva comunque rappresentare un approccio sfaccettato al suo modo di scrivere canzoni.
Agli inizi del 1900, il compositore ungherese Béla Bartok ridefinì la musica classica introducendo uno stile che mostrava un genio per la sintesi, fondendo le influenze popolari dei Carpazi con la musica classica dell'epoca. Naturalmente, alcuni critici da poltrona lo hanno scambiato per un eclettismo compiacente fine a se' stesso. In un modo in qualche maniera simile, il moderno Bartok del metal estremo, Tamás Kátai, è un maestro nella creazione di un suono eclettico che abbatte tutte le barriere di genere, fondendo metal d'avanguardia con elementi di jazz, folk, elettronica, e musica pop.
L'album propone un mix impareggiabile ed elegante di sapori diversi in un modo a dir poco spettacolare ed emozionante.

domenica 31 marzo 2024

giovedì 14 marzo 2024

Ciprì e Maresco - Cinico TV - Grazie Lia - Breve inchiesta su Santa Rosalia (1996)

Cinico TV, dei registi Ciprì e Maresco, era un programma che andava in onda a notte tarda su RaiTre nei primi anni '90. Ovviamente non ero a conoscenza della sua esistenza, essendo un fanciullo che la notte si preoccupava soprattutto di dormire, pero' alcuni sketch venivano riciclati dalla trasmissione in pre-serata Blob, programma che a casa mia si guardava molto, e quelli sketch mi sono rimasti ben impressi nella memoria, seppur durassero pochi minuti. Lo squallore, l'orrido, l'atmosfera sospesa nel tempo, i ruderi, le macerie architettoniche ed umane, le immagini in bianco e nero, tutto cio' era piacevole come un pugno nello stomaco, ma cosi' affascinante e magnetico. Non sono un critico cinematografico e non possiedo il linguaggio per definire un'opera cosi' diversa, straniante ed inquietante, quindi mi affidero' ad alcuni estratti per farvi capire di cosa si tratta, qualora non ne siate a conoscenza.

Se dovessi scegliere due nomi per dire chi, in questo caso nel cinema, ha avuto il merito di tirarne fuori una rappresentazione a dir poco precisa, seppur nella sua forma più surreale e post-apocalittica, senza dubbio direi che si tratta di Daniele Ciprì e Franco Maresco, la coppia di registi palermitani che ha avuto la straordinaria capacità di mettere nero su bianco – letteralmente – la Sicilia, tirandone fuori gli aspetti più disgustosi, miseri, veri e contraddittori. Ciprì e Maresco in poco più di vent’anni di lavoro insieme, non tenendo conto delle loro opere da singoli, hanno dato vita a un universo parallelo in cui si riversano tutte le cose che ogni giorno chi vive o ha vissuto in Sicilia sa che esistono, le riconosce, ma non saprebbe descrivere: hanno creato un luogo parallelo in cui si riuniscono le caratteristiche più archetipiche, antropologiche e fisiologiche, di questa isola disgraziata, senza nessuna necessità di filtrarne l’aspetto con qualche colore sgargiante da carretto siciliano. Hanno ripulito da canditi, lustrini e barocco l’isola dei ciclopi per restituirne un’immagine che si avvicina molto di più alla tradizione letteraria classica, quella di Pirandello e di Verga, piuttosto che a una cartolina di promozione turistica contemporanea.
Già a partire dal nome della serie si intuisce l’intento dei due registi palermitani, ovvero quello di mettere in scena, senza nessun freno inibitorio o edulcorante, una realtà fatta di personaggi osceni, disgustosi, reietti e dimenticati dal mondo che popolano i sottoboschi dell’isola delle arance e delle paste di mandorla, che si rivela così non per la sua gradevolezza folkloristica di tamburelli e marranzani ma per la sua spietata bruttezza, una mostruosità tanto disturbante quanto rivelatrice. La Sicilia di Cinico TV è infatti un distillato di disagio sociale, un insieme di ritratti talmente orripilanti da risultare sgradevoli alla vista, per come parlano, per quello che dicono, per il loro aspetto grottesco. Gli attori di questa serie sono spesso gli stessi che poi verranno utilizzati anche nel cinema dei due registi, e sono quanto di più verista che nemmeno De Sica avrebbe potuto ambire a tanto: personaggi ricorrenti ognuno caratterizzato da qualche malformità, sia fisica che mentale. Ed è qua che si attiva uno dei meccanismi rappresentativi più efficaci di Ciprì e Maresco, una strategia che sarà fondamentale nei loro film e nei loro documentari successivi, che non solo è in grado di mettere in scena i ritardi mentali, le malformazioni e le inettitudini peggiori – spesso legate al sesso e alla sua manifestazione più oscena e primitiva, ma anche alla religione – dell’essere umano nel modo più sincero e innovativo possibile ma è anche un modo incredibilmente efficace di mettere in scena questo aspetto della realtà.
Le domande che i registi pongono agli intervistati, in questo scenario surreale e diroccato, con un bianco e nero intenso e violento che rende tutto il paesaggio attorno una sorta di angolo metafisico abbandonato al degrado umano e ambientale, sono poste con una formula che diventerà proprio una cifra stilistica della coppia. Così come il racconto di questa tendenza all’approccio con la diversità fatta non di accoglienza e gentilezza ma di spietata sfacciataggine sarà anche il perno di un’estetica talmente assurda e repellente da diventare comica. E soprattutto, l’uso di una lingua sporca, fastidiosa, eccessiva.

Daniele Ciprì e Franco Maresco fanno irrompere sul piccolo schermo una galleria di soggetti altrettanto inquietante: in Cinico TV compaiono persone di una tipologia che il telespettatore non ha mai visto prima, un’umanità sottoproletaria e malconcia quant’altre mai, tirata fuori da chissà quali anfratti di Palermo e invitata a interpretare una rappresentazione grottesca della propria disgraziata esistenza.
L’uomo viene esposto da Ciprì e Maresco nella sua fragilità esaltata dalla seminudità (a torso nudo o in mutande), e l’atroce bassezza della condizione dei prescelti viene scarnificata dalla voce fuori campo di Maresco, che interroga e infierisce.
E allora vediamoli questi nostri fratelli così diversi da noi:
Giuseppe Paviglianiti, forse il più noto a causa del suo aspetto indimenticabile (ventre enorme e capelli unti), della mimica che assumeva quando emetteva (finti) peti dalla lunghezza e frequenza improbabili, e del suo meraviglioso tormentone “Certamente!”.
Pietro Giordano, non privo di capacità interpretativa e proprietà di linguaggio, il suo personaggio è consapevole di essere una nullità.
Rocco Cane, al secolo Marcello Miranda, non parla mai, è un frenastenico che quasi sempre si limita a stare in scena (spesso a occhi chiusi), salvo quando mima freneticamente atti sessuali.
Fortunato Cirrincione, incapace persino di pronunciare correttamente il suo nome.
Francesco Tirone, perennemente in tenuta da ciclista agonista, stralunato ma molto vispo nei dialoghi con la voce fuori campo.
Giuseppe Filangeri, ragazzo che vive in un mondo tutto suo dominato dalla religione (o meglio dei dogmi e della pratica religiosa), impersona sé stesso, e temo che non potrebbe fare altro.
Chiudo con i fratelli Abbate, Franco e Rosolino, che rispondono sempre in coro, con veemenza. Sono ossessionati dalla sessualità e si lagnano del fatto che le donne “provocano” perché hanno “tette, vergogna e culo” e non ce lo dovrebbero avere (quest’ultimo), e invece “ce l’hanno”.

domenica 3 marzo 2024

Nemrud - Ritual (2013)

Fondati ad Istanbul nel 2008 dal chitarrista e cantante Mert Göçay, dal batterista Harun Sönmez e dal bassista Aycan Sarı, i Nemrud hanno raggiunto una formazione stabile con l'ingresso del batterista Mert Alkaya e del tastierista Mert Topel (ma si chiamano tutti Mert?) nel 2010, anche se poi Levent Candaş sostituira' Sarı nel 2015. La band ha pubblicato i primi due album Journey of the Shaman (2010) e Ritual (2013) grazie alla francese Musea Records e alla fine del 2015 ha pubblicato l'album Nemrud con la turca Rainbow45 Records, finora loro ultimo lavoro.

Il gruppo prende il nome dal monte Nemrut, montagna alta 2150 metri che si trova nella Turchia sud-orientale, conosciuta per la tomba-santuario costruita nel 62 a.C. dal re Antioco sulla cima della montagna, che domina la valle dell'Eufrate, luogo sacro considerato per secoli punto di intersezione tra Oriente e Occidente.
I Nemrud vanno oltre lo standard rock turco e le canzoni popolari turche, sorpassando i limiti tecnici e compositivi della musica rock tradizionale turca, inoltre nelle loro composizioni sono presenti componenti classiche, jazz e d'avanguardia. La loro musica mostra le caratteristiche generali del prog come melodie e ritmi mutevoli, refrain e pause, testi concettuali e astratti. L'ammirazione della band per l'epoca d'oro del rock progressivo si riflette nelle storie epiche raccontate nei loro album, con reminiscenze di Eloy, Pink Floyd, Yes, Camel e altre band con tendenze psichedeliche e sinfoniche. In questo lavoro l'influenza degli Eloy e' palpabile: stesso tono di voce, stessa atmosfera calda, organo e sintetizzatori spaziali mentre il compito di creare il groove e' soprattutto affidato alla chitarra, per uno stile quasi kraut.
Quella in questione e' la loro seconda uscita e la maggior parte della critica la ritiene un passo avanti rispetto al debutto Journey Of The Shaman; si tratta di tre tracce lunghe e di una breve che mantengono la durata complessiva sotto i 40 minuti, decisamente più cupo e malinconico rispetto all'album precedente. Le scene drammatiche sono ben rese lungo tutto il disco, vi e' un ottimo lavoro ritmico, belle progressioni armoniche guidate dalla chitarra e un'ottima solidità compositiva, elementi che fanno di Ritual un classico del progressive. I Nemrud padroneggiano l'arte di raccontare storie con la musica, con testi più vicini alla poesia che alla prosa.
L'album Ritual è etichettato come psichedelico/space rock, eppure l'influenza neo-prog e' presente: lo stile è generalmente rilassato, ed allo stesso tempo tecnicamente brillante; e' un lavoro consistente, con una buona varietà, infatti al di la' della componente progressiva troviamo elementi quasi sludge e persino tracce indie pop. Il suono varia molto e passa da momenti piu' rumorosi e pesanti ad altri con melodie piuttosto semplici, pulite e sottili; possiamo ascoltare rilassanti assoli di synth e organo, delicati passaggi di chitarra, assoli incredibili e sezioni violente di batteria, il tutto all'interno di un'unica traccia, come in In My Mind per esempio. La musica e' solida e sembra sempre procedere in una qualche direzione, piace di primo acchitto e migliora con gli ascolti. Il cantante migliora il tutto con il suo tono di voce forte e piacevole, come si evince nel breve brano Light, reso speciale dalla sua interpretazione fluida e dalle meravigliose melodie vocali. I testi parlano di uno sciamano, e lo seguono attraverso momenti di depressione, di dolore e di perdita, assolutamente niente di allegro, di conseguenza c'e' molta emotivita' nel canto.
La prima traccia è In My Mind e si apre in modo sperimentale prima che la chitarra si intrometta con una linea melodica accompagnata dalla batteria, mentre dopo un minuto e mezzo irrompe la voce, che canta "L'oscurità cresce nella mia mente, la paura cancella i ricordi, il passato è sparito, l'ombra copre la realtà". L'organo entra fluttuando e dopo sei minuti il brano raggiunge il culmine, con Mert che continua a narrare la sua storia: "Benvenuta oscurità, mia inquieta amica, volerò ancora un'ultima volta, nella mia mente c'è solo dolore, tutti i ricordi sono prosciugati, ho aperto gli occhi ma non riesco a vedere, cosa mi sta succedendo?"; il tono diventa pesante ed aggressivo dopo otto minuti e mezzo quando la voce si arresta. Bellissima canzone. Si prosegue con Sorrow By Oneself, brano che si apre in maniera molto malinconica ed avvicinandosi molto ai Pink Floyd, e quando subentra la voce lo stile si fa piu' rilassato e lento; dopo tre minuti e mezzo le tastiere salgono alla ribalta, mentre il canto si ferma completamente, ed in seguito, al quinto minuto circa, la chitarra prende il sopravvento scambiandosi la scena con le tastiere, di fatto rallentando e calmando ulteriormente i toni. Un'altra canzone molto ben riuscita.
Light è un breve intermezzo di poco più di due minuti, che presenta un organo spaziale, una chitarra ispirata ed ancora un ritmo rilassato, soprattutto quando fa capolino la voce. Ritual è la traccia finale, lunga ed epica con i suoi 18 minuti abbondanti: paesaggi sonori inquietanti all'inizio, liriche che continuano a raccontare di solitudine ed oscurità, il suono in seguito evolve e sembra diventare più sereno man mano che viene riprodotto, ed infatti dopo cinque minuti si assiste ad un brusco cambiamento, quando la voce si ferma e la musica diventa più rilassante, salvo poi mutare ulteriormente, soprattutto grazie alla chitarra ed al canto, poiche' Mert annuncia la scomparsa della sua paura e l'atmosfera diventa allegra. A questo punto e' il momento di un provvidenziale quanto necessario assolo d'organo: nove minuti e mezzo di arie positive e rassicuranti. Al quattordicesimo minuto il tutto si arresta bruscamente e si conclude con gli sperimentalismi che hanno aperto il disco.
Un album molto ben riuscito, con esplorazioni di tastiera, una chitarra space/psych, alcuni passaggi più pesanti e superbi cambi strumentali e di ritmo. E' un disco che non stanca mai e probabilmente la miglior produzione turca per quanto riguarda il progressive rock.

lunedì 26 febbraio 2024

Mai Dire Gol - 2000-01 - Puntata 7 - 25-02-2001

Beh, siamo arrivati ufficialmente all'epilogo della saga di Mai Dire Gol, spero che il viaggio vi sia piaciuto quanto e' piaciuto a me. Non mi sono preso la briga di cercare tutti gli eventuali spin-off, Mai Dire Domenica, Lunedi', Martedi', ecc., il meglio e' gia' stato ampiamente dato e anzi le ultime due o tre stagioni sono a malapena sufficienti. Ho del materiale interessante di altra natura da condividere con voi, oltre alle mie solite noiose recensioni, quindi non finisce qui (e' una minaccia).

domenica 18 febbraio 2024

domenica 11 febbraio 2024

lunedì 5 febbraio 2024

domenica 28 gennaio 2024

domenica 21 gennaio 2024

lunedì 15 gennaio 2024

martedì 9 gennaio 2024

Altre 20 ulteriori canzoni prog delle quali non potrete piu' fare a meno

Al Stewart - Running Man (da 24 Carrots, 1980)
Alastair Ian Stewart non e' propriamente un compositore prog, ma il suo stile a meta' fra folk e rock e' aperto a numerose contaminazioni, e qualche canzone prog qua e la' ce l'ha regalata. Cantautore e chitarrista scozzese, è diventato famoso come parte del revival folk britannico negli anni '60 e '70. Ha sviluppato uno stile unico combinando canzoni folk-rock con testi che raccontano di eventi storici realmente avvenuti. Ha vinto due dischi di platino, e' stato compagno di appartamento di Paul Simon a Londra, si narra abbia fatto conoscere Yoko Ono a John Lennon. Ha pubblicato 16 album in studio e tre dal vivo; fra i musicisti che hanno suonato nella sua band si ricordano Jimmy Page, John Paul Jones, Rick Wakeman e Francis Monkman. Running Man e' una canzone rock tutto sommato, molto orecchiabile, con un arrangiamento curato, duetti chitarra tastiere, assoli e raffinatezze varie che la avvicinano al prog.


Benny Soebardja & Lizard - Crime (da Lizard, 1975)

Qualche anno fa mi sono imbattuto in un blog sul progressive rock in Indonesia. Caduto nella tana del coniglio, per un paio di mesi mi sono studiato per bene tutto il blog ascoltando quello che riuscivo a trovare, ed ho concluso che agli indonesiani il rock piace ma non sono un granche' come compositori. Come ci si poteva aspettare, la maggior parte della produzione prog delle band indonesiane non e' all'altezza di quella di gruppi provenienti da paesi piu' tradizionali, ma qualcosina qui e li' si salva. Innanzitutto non e' propriamente prog, la base rock'n'roll e' molto accentuata, ma a volte ci sono influenze e contaminazioni con il funk ed il blues, e soprattutto con la musica tradizionale dell'isola, che rendono il sound abbastanza distinto. Benny Soebardja e' una specie di rockstar locale, ha suonato in altre band come Peels, God Bless, Giant Step e Shark Move, e qui si cimenta con la produzione solista affiancato da un gruppo di musicisti sotto la sigla di Lizard. Canzone breve, molto rock con influenze blues e gospel, e' a mio parere la meglio riuscita dell'album in questione, lavoro che si lascia ascoltare in ogni suo frangente. Benny suona la chitarra e canta, mentre i Lizard sono formati da Uge Basar alla chitarra, Alan Basar al basso, Triawan Munaf alle tastiere e Haddy Arief alla batteria. In questo album figura anche la presenza di un paroliere, tale Bob Dook, poeta inglese che ha scritto i testi delle canzoni in lingua albionica, visto che ne' Benny ne' nessun altro conosceva l'inglese.


Camera - Chords4/Kurz Vor (da Prosthuman, 2021)
I Camera sono una band di Berlino autrice di un krautrock moderno ed originale. Sono molto famosi nella scena underground per i loro concerti improvvisati ed arrangiati con pochi mezzi nei luoghi piu' periferici, tipo i tunnel della U-Bahn o giganteschi intrecci di autostrade sospese che come spesso accade finiscono con l'avere uno spazio vuoto al centro. Rave prog, chi se lo sarebbe mai immaginato. La band è composta da Michael Drummer alla batteria (voglio sperare sia un nome d'arte), Franz Bargmann alla chitarra e Timm Brockmann alle tastiere. Il loro stile e' stato ribattezzato Krautrock Guerilla e fonde elementi di NEU! e Kraftwerk con elettronica moderna e prog di stampo piu' tradizionale, e questo e' il loro quinto album. Canzone estremamente ritmica ed orecchiable, atmosferica e melodica, ma l'intero album e' caldamente consigliato.

Daniel Villareal - Ofelia (da Panamá 77, 2022)

Panamá 77, l'album di debutto del batterista e DJ Daniel Villarreal, nato a Panama City nel 1977 e residente a Chicago, emette un jazz spirituale terroso e umido. A ruota libera e senza vincoli di genere, Villareal ha trascorso gran parte del 2021 in post-produzione, aggiungendo strati di percussioni e mettendo insieme la musica registrata; ciononostante le percussioni risultano naturali, organiche e tutt'altro che appariscenti: una gioia da ascoltare, assolutamente parte integrante del suono complessivo, sottile, funky e creativo, risultando in qualcosa che sembra veramente organico e vivo. Daniel e' cresciuto suonando la batteria nelle scene punk e hardcore dell'America Centrale. Freddy Sobers, il batterista dei gruppi reggaeton panamensi El General e Nando Boom, ha preso il nascente musicista sotto la sua ala protettiva, esponendolo a molti stili, suoni e trame. Trasferitosi a Chicago, ha iniziato a suonare musica tradizionale latina: dapprima in una fattoria, dove era un assistente sociale che aiutava i lavoratori migranti a raggiungere le cliniche sanitarie della comunità e poi come sideman nella scena musicale locale, offrendogli la capacità di estendere le sue tradizionali radici folcloristiche latine. Questa "Ofelia" vede un suono vorticoso e psichedelico grazie ad un organo incendiario, emana un sapore centroamericano. Ofelia e' anche il nome della mamma del musicista, a cui l'album e' dedicato.
 

Echoes Of Giants - Pushing You (da At The End of Myself, 2013)
Il sound degli Echoes Of Giants rasenta il prog, nel senso che si tratta di un rock molto elaborato e dominato dalle tastiere, un bel miscuglio di rock orecchiabile, pop e sofisticatezze varie che rendono il tutto piu' interessante. Sono un po' di parte pero' nell'aver scelto questa band, in quanto vengono infatti da Columbia, nel Missouri, ad un'ora di macchina da Kansas City, luogo al quale sono particolarmente affezionato visto che il mio gruppetto di amici si e' formato proprio a Columbia, quando frequentavano tutti l'universita'. Tutta questa bella gente si e' poi trasferita nella grande citta', Kansas City per l'appunto, ed e' stata gentile ed ospitale al punto da farmi entrare in questo gruppo, e sappiamo tutti quanto sia difficile farsi degli amici dopo i trent'anni, e soprattutto quanto sia difficile entrare in un circolo di persone che si conoscono da una vita. Ma sto divagando. Wes Bolton suona la chitarra, Tracy Thomas le tastiere e la batteria, mentre Rick Kaufmann e' il bassista, e questi ragazzi hanno qualcosa che a molte band manca completamente: l'anima. Questa musica ha spirito, c’e' un’emozione in questo album che sembra così viva e palpabile, così innegabile e coinvolgente. Così umana. Questa band ha un orecchio attento alle belle melodie senza pero' risparmiarsi in soluzioni un po' piu' audaci, cambi di tempo e cosi' via, riuscendo a bilanciare molto bene tecnica e melodia.
 

Etron Fou Leloublan - Mimi (da Les Poumons Gonfles, 1982)

Il RIO, ovverosia il Rock In Opposition, e' un sottogenere del prog di quelli piu' estremi ed arzigogolati. E' abbastanza difficile da spiegare di che tipo di musica si tratti, e secondo me questa canzone rappresenta perfettamente lo stile. Immaginate un tipo di rock che, appunto, si oppone ai modelli prestabiliti e cerca di esplorare nuove maniere di fare rock, senza pero' dimenticare orecchiabilita' e bellezza del suono. Mimi e' una canzone che in meno di tre minuti (2:59 per la precisione) cambia stile tre volte, si tratta letteralmente di tre brevi spunti messi insieme in una sorta di pastiche, che pero' curiosamente sembrano derivare l'uno dall'altro, provare per credere. Quindi in questa fattispecie la re-interpretazione del rock consiste nel mettere completamente da parte la forma canzone, per esplorare altri modi di strutturare i brani. Si parte con un bel ritmo off-beat scandito dalla batteria su cui si poggia un bel giro di piano ed un canto quasi narrato; improvvisamente il ritmo cambia, la chitarra subentra affiancata da una curiosa tastiera quasi rumorista, con la voce che si inquieta un attimo; infine, l'off-beat iniziale ritorna ma stavolta sono i fiati a dominare, con ancora la voce seconda protagonista. Gli Etron Fou Leloublan sono francesi e sono composti da Guigou Chenevier alla batteria ed al sax, Bernard Mathieu suona altri sassofoni, Ferdinand Richard suona il basso e canta, mentre Jo Thirion suona le tastiere e la tromba. In questo album compare anche Fred Frith in un paio di tracce. Gli Etron Fou Leloublan hanno pubblicato cinque album a cavallo fra il 1976 ed il 1985, consigliati solo agli appassionati del genere.
 

Fufluns - Lamento D'Uno Spaventapasseri (da Spaventapasseri, 2016)
Fufluns era una divinita' della mitologia etrusca, dio della vegetazione e della prosperita', entita' che poi sarebbe evoluta in Dioniso per i greci e in Bacco per i romani, divenendo di fatto il dio del vino e della liberazione dei sensi. Si tratta di fatto di un super-gruppo, progetto del cantante de Il Bacio Della Medusa Simone Cecchini, coadiuvato dal tastierista Alfio Costa che ha suonato con Daal e Prowlers, dal bassista Guglielmo Mariotti dai The Watch e da La Bocca Della Verita', nonche' ex Taproban, dal chitarrista Stefano Piazzi dai Prowlers ed inizialmente dal batterista Maurizio di Tollo, gia' con La Maschera Di Cera ed Hostsonaten, poi sostituito da Marco Freddi sempre dai Prowlers. Con questa formazione i nostri registrano l'album in questione, decisamente orientato al progressivo italiano, come si puo' ben immaginare, seguito da un altro album nel 2021. E' un concept che prevede elementi di folk, classica, psichedelica e sinfonica, che si mescolano tutti insieme in questo lussureggiante album ricco di ballate. Musicalmente molto valido, pero' l'idea di dedicare un concept ad uno spaventapassari mi e' sembrata un pochino debole. Questa canzone pero' e' davvero bella.
 

Fulano - Rap-Rock (da En El Bunker, 1989)
Considerata la migliore band fusion jazz-rock cilena, le loro composizioni spaziano dal pop-rock sperimentale all'acid jazz con tratti avanguardistici. Uno stile rock complesso di prim'ordine con voce femminile. "Rap-Rock" è una melodia uptempo molto orecchiabile, probabilmente la miglior performance vocale di questo gruppo; ottimi anche sax e chitarra. Un certo Campos suona basso e chitarra, Cristián Crisosto suona i fiati, Arlette Jequier e' la cantante, inoltre suona anche il clarinetto, Guillermo Valenzuela e' il batterista, Jaime Vasquez e' l'altro fiatista, mentre Jaime Vivanco suona le tastiere. Questi cileni non sono mai riusciti a raggiungere continuita' purtroppo, infatti la loro produzione attraversa quattro decenni pur consistendo di soli cinque album.
 

Giant Step - Alam Bebas (da Kukuh Nan Teguh, 1977)

Vi avevo accennato di come sono facilmente caduto preda del sound del prog rock indonesiano, quanto ha rappresentato per me una novita', dopo anni ed anni trascorsi nella vana ricerca di qualcosa di originale. Essere il piu' grande esperto mondiale di prog-rock non e' tutto rose e fiori, attraverso lunghi periodi durante i quali cio' che ascolto quasi non mi piace, quindi quando finalmente mi imbatto in qualcosa che non solo mi piace ma e' anche relativamente nuovo, beh, ripaga di tutto il tempo impiegato. Fondati a Bandung in Indonesia nel 1973, i Giant Step sono uno dei gruppi leggendari della scena rock progressiva indonesiana degli anni '70, la loro musica mostrava influenze dei grandi dell'olimpo progressivo, ma riusciva comunque a fornire originalità. La band ha pubblicato sette album fra il 1975 ed il 1985, si e' sciolta e si e' riformata nel 2017 per pubblicare un altro lavoro. Inoltre il gia' accennato Benny Soebardja e' il cantante e primo chitarrista, affiancato da Albert Warnerin all'altra chitarra, Triawan Munaf alle tastiere, Adhy Sibolangit al basso e Haddy Arief alla batteria. Il loro sound e' un maniacale hard/psych prog con mostruose onde d'organo e testi in lingua madre; le influenze spaziano dal rock psichedelico degli anni '60, con begli intrecci tastiere/chitarra, alla musica classica con numerosi strati di moog. Peccato per la produzione arrangiata.


 

Gösta Berlings Saga - Släpad (da Konkret Musik, 2020)

Fondati nel 2004 a Vällingby in provincia di Stoccolma, questa band vede la genesi nel 2000, quando i musicisti ed amici David Lundberg (tastiere) e Alexander Skepp (batteria) iniziano a comporre canzoni strumentali, basate su batteria e tastiere, abbozzando suoni giocosi e melodici. Nel 2004 il duo decide di ampliare la formazione, avvertendo un limite sempre piu' evidente, e recluta Gabriel Hermansson come bassista e Matthias Danielsson come chitarrista, e con questa formazione i nostri cominciano a suonare in giro e registrare demo. Il loro primo grande concerto (tenuto, curiosamente, in un club illegale della periferia di Stoccolma) diffuse la notizia di questo nuovo gruppo in tutta la citta'. Nel 2006 Einar Baldursson entra come nuovo chitarrista, portando con se' suoni piu' oscuri e dissonanti. L'album da cui e' tratto questo brano e' il sesto dei Gösta Berlings Saga, i quali propongono un rock progressivo moderno ed eclettico, che attinge dai canoni principali: dalla sinfonia oscura alla jam jazz, dai frammenti RIO alle armonie space rock. Släpad e' ritmica ed opprimente, marziale e greve, con un gran lavoro di batteria e percussioni, basso presente e pulsante, conduzione in mano alle tastiere con la chitarra ad accompagnare, un gioiellino. 

 

Iosonouncane - Tanca, Stormi (da DIE, 2015)

  Iosonouncane, pseudonimo di Jacopo Incani, e' un cantautore e compositore italiano. Da adolescente fonda gli Adharma (band della quale non so dirvi granche') nella sua Sardegna, prima di trasferirsi a Bologna per frequentare l'universita'. Il progetto Iosonouncane nasce nel 2008 quando Jacopo acquista un campionatore ed una loop machine, e si mette a giocare coi suoni. Cosi' arriva il disco d'esordio nel 2010 La Macarena Su Roma, ben accolto dalla critica, in cui il cantautore sardo si occupa in pratica di tutto, dalle musiche composte da loop e campionamenti, nonche' dalla chitarra acustica, ai testi, provocatori e taglienti, incentrati su temi d'attualita' come la precarieta', la disinformazione, il razzismo e la disuguaglianza sociale, fino alla produzione. In quel periodo il musicista lavorava per un call center, e non ho idea se si sia mai laureato. Il capolavoro arriva nel 2015 con l'album DIE, in cui suonano altri 17 musicisti oltre a Jacopo, che si occupa del canto, delle chitarre, delle tastiere, delle percussioni e degli immancabili campionamenti. Psichedelia, canto a tenore sardo, minimalismo, techno, elettronica lo-fi, progressive, canzone d'autore sono gli elementi che caratterizzano strutturalmente e timbricamente il disco. Nell'album ci sono percussioni, beat elettronici, campionature vocali e orchestrali, un organo, un pianoforte, sintetizzatori, un flicorno, una sezione fiati composta da sax baritono, trombone e tromba, chitarre classiche, acustiche ed elettriche, una chitarra slide, la chitarra sarda preparata, grida e voci femminili. Un calderone di stili e suoni che forma l'idea di musica di questo artista pieno di talento. Nel 2021 arriva Ira, non all'altezza di DIE putroppo. Se Tanca e' una lunga composizione minimalista, rumorista,  opprimente, inquietante, oscura, straniante, Stormi e' invece melodica, rassicurante, dolce, quasi serena, a creare un contrasto dal forte impatto. Una piacevole scoperta, mi aspetto molto da questo ragazzo.
 

Kayak - Waiting (da Out Of This World, 2021)
I Kayak sono una delle band di punta del prog olandese, nonche' uno dei gruppi piu' longevi e produttivi dei Paesi Bassi. Fondati nel 1972 a Hilversum, la loro storia vede diverse fasi ben distinte, come il cambio di stile nel 1977 (data non a caso vista l'ascesa del punk), lo scioglimento nel 1981, fino alla rinascita nel 2000. I Kayak annoverano nelle loro fila il tastierista Ton Scherpenzeel, uno dei musicisti piu' talentuosi dell'intero genere, affiancato da un altro tastierista di nome Pim Koopman, che durante la fase piu' prettamente prog lo aiuta nella scrittura delle canzoni. Inizialmente il loro stile era molto ispirato da Genesis, Yes e Supertramp, ma dal 1977 in poi si vede non solo un cambio di approccio ma anche di formazione. Koopman lascia la band, un fan di vecchia data, Edward Reekers, entra come cantante, ed il cantante originale si mette dietro ai tamburi, essendo in effetti batterista di professione. I Kayak a questo punto intuendo l'incombente declino della popolarita' del progressive decidono di virare verso un prog piu' tendente al pop, forma canzone ma arrangiamenti elaborati e partiture sofisticate, alla Asia per intenderci. Ricapitolando, dopo l'album d'esordio See See The Sun, di cui consiglio l'ascolto, questi simpatici olandesi pubblicano altri 7 album fino allo scioglimento, con Phantom Of The Night del 1978 che risultera' il loro album piu' venduto di sempre. Nella seconda fase pubblicheranno altri 10 album, con questo Out Of This World che secondo me e' forse il loro migliore lascito. Oltre a Ton, gli altri musicisti coinvolti sono il cantante Bart Schwertmann, il chitarristra Marcel Singor, il bassista Kristoffer Gildenlöw ed il batterista Hans Eijkenaar. Ascoltate questa stupenda canzone pop, raffinata, curata, elegante, piena di classe.
 

Osiris - Sailor on the Seas of Fate (da Osiris, 1981)
Il prog e' uno dei generi piu' di nicchia in assoluto, dai risvolti commerciali molto raramente rilevanti, eppure e' arrivato ai quattro angoli del mondo. Questa band fu fondata nel 1979 a Manama, in Bahrain, piu' unico che raro caso di prog dal medio oriente. Il loro stile viene spesso etichettato come neo-prog, ma cronologicamente anticipano il neo-prog, e cio' deriva soprattutto dal fatto che la band in questione si rifa' molto a Camel e Genesis, pur semplificandone alcuni tratti. Molto curioso il fatto che questi ragazzi abbiano pubblicato cinque album in un arco di tempo di quasi 40 anni, visto che la loro ultima pubblicazione e' del 2020. Line-up nutrita, con Mohamed Al-Sadeqi alla chitarra e voce, Mohammed Amin Kooheji all'altra chitarra, al basso ed alle percussioni, Abdul Razzak Arian alle tastiere, Sami Al-Jamea suona altre tastiere, Mohammed Amin Shafii suona il basso e perche' no, ulteriori tastiere, Nabil Al-Sadeqi e' il batterista ed infine Isa Jahani al vibrafono ed alle percussioni. Questa canzone mette insieme sonorita' piu' europee a echi arabi e medio-orientali, organi e sintetizzatori si sprecano, mentre gli ultimi quattro minuti sono una fuga strumentale molto alla Alan Parsons Project. 11 minuti di ottimo prog esotico.
 

Sad Minstrel - The Flight Of The Phoenix (da The Flight Of The Phoenix, 2001)
Sad Minstrel e' il progetto solista del tastierista dei Malombra, Fabio Casanova, il quale pubblica questo album quando la band stava per scioglersi (si sarebbe riformata vent'anni dopo) ma che lui aveva comunque gia' abbandonato. Unico disco di questo artista, che qui oltre alle tastiere si occupa di tutto il resto, ovvero chitarre, canto, basso MIDI e batteria campionata; album piacevole, catalogato come folk ma che invece presenta un bel piglio rock che ricorda vagamente il folk solo per alcuni rimandi ai Jethro Tull, soprattutto nel tono della voce. Una via di mezzo fra folk e psych direi, tante belle idee, questa canzone in particolare e' aggressiva ed orecchiabile, con un bel riff di chitarra e degli indovinati arrangiamenti tastieristici.
 

The Chemistry Experiment - Story of Isaac, A Good Wind (da Gongs Played By Voice, 2015)
Di questi ragazzi non so dirvi molto, infatti e' incredibilmente difficile trovare informazioni sul loro conto, non esiste nemmeno un sito ufficiale della band. Ad ogni modo, pare siano inglesi e sono arrivati con questo Gongs Played By Voice al loro quarto disco, dopo l'esordio nel 2001. Considerando che il gruppo trae influenza da artisti di ampio respiro come King Crimson, Tindersticks e Soft Machine, l’album si assesta in un territorio indie-folk relativamente sicuro. A Good Wing, lunga nove minuti, porta alla ribalta elementi psichedelici: descrive una giornata ventosa sulla costa australiana e la classica battaglia tra il bene e il male, la natura e il sintetico, l'umano e il vocoder. Story of Isaac e' invece una cover di Leonard Cohen, davvero molto carina. La band e' formata da Steven Kirk a voce e chitarra, Paul Stone al basso, Emily Kawasaki alle tastiere, Lee Tombs al flauto e Martin Craig alla batteria. Liberamente basato sul tema delle stagioni, degli elementi e del mare, come molte cose dei The Chemistry Experiment questo lavoro è unico, stramboide, pastorale e distinto.
 

The Comet Is Coming - Code (da Hyper-Dimensional Expansion Beam, 2022)
I The Comet Is Coming sono una band londinese attiva fra il 2015 ed il 2023 la cui produzione consiste di quattro album in studio, dall'ultimo dei quali e' estratta questa canzone. Formato da tre elementi, il sassofonista Shabaka Hutchings, il tastierista Dan Leavers ed il batterista Max Hallett, il gruppo mescola jazz, elettronica, funk e psichedelia per proporre una miscela originale e dal grande impatto.

Negli ultimi dieci anni, Hutchings si è affermato come uno dei rappresentanti più potenti della musica improvvisata britannica, non solo in virtù del suo status di musicista appartenente ad alcuni dei gruppi jazz più famosi del paese, ma perché emette un suono più forte e fisico attraverso il suo sax tenore di quasi chiunque altro suoni lo strumento oggi. Sin dal debutto, il trio è stato una novita' per il modo di suonare fortemente dinamico allo scopo di liberarsi dai vincoli formali: con solo due strumenti come accompagnamento, il sax qui può sfogarsi liberamente attraverso la fusione dei generi summenzionati, con persino puntate nel dub terroso e nello swing ondulato. Questa Code e' ovviamente trascinata da un irresistibile sax, qui piu' melodico e groovy che mai, con un bel doppio sintetizzatore sullo sfondo ed un drumming marziale e ritmico. La band purtoppo si e' sciolta lo scorso anno pare a causa di dissidi interni.


The Ocean - Holocene (da Phanerozoic II: Mesozoic / Cenozoic, 2020)
Gli Ocean sono una band prog/metal tedesca fondata dal chitarrista Robin Staps nel 2000 e tutt'ora attiva. Da notare che esiste anche un album denominato Holocene uscito nel 2023 e che devo ancora ascoltare. Il gruppo e' riuscito a trovare una formazione stabile solo dal 2019, assestandosi sui seguenti elementi, oltre a Staps: Loïc Rossetti alla voce, David Ramis Åhfeldt alla chitarra, Mattias Hägerstrand al basso e Paul Seidel alla batteria. Sono ormai nove gli album in studio dopo il debutto del 2004, tutti di pregevole fattura devo dire; se questa canzone piace consiglio di ascoltare l'intera discografia, visto che non c'e' davvero un album che spicca sugli altri (a meno che l'ultimo che devo ancora sentire non sia il tanto atteso capolavoro). Lo stile di questi nostri amici tedeschi e' stato etichettato come prog/metal atmosferico, definizione che calza a pennello a mio parere.
 

Victor Peraino's Kingdom Come - Athena (da Were Next, 1981)
Victor Peraino ha registrato l'album Journey con gli Arthur Brown's Kingdom Come (derivazione dei The Crazy World of Arthur Brown) nel 1973, suonando tastiere ed altri strumenti elettronici, cantando e suonando le percussioni, dopodiche' e' riuscito in qualche maniera ad acquisire la sigla ed ha a sua volta pubblicato un paio di album in studio a nome di Victor Peraino's Kingdom Come, uno nel 1975, No Man's Land, e l'altro nel 2014, Journey In Time, nel quale fra l'altro compare anche Arthur Brown. Victor ha anche collaborato con Queen, Manfred Mann, Dave Edmunds, Brian Eno, Daevid Allen, Hawkwind e la Edgar Broughton Band. Questa canzone e' tratta da un EP, e' lunga poco piu' di due minuti, molto ritmica con l'organo a condurre, ricorda qualcosa di David Bowie.
 

Witsend - Circadian Rhythm (da Cosmos And Chaos, 1993)

I Witsend hanno cambiato nome subito dopo la pubblicazione di quest'album, a causa di un'omonimia con un gruppo norvegese. Inizialmente si chiamavano Abraxas, che pero' e' gia' il nome di una band polacca, hanno quindi virato verso Witsend, per poi definitivamente adottare lo pseudonimo Syzygy, nome col quale sono tutt'oggi conosciuti. I due membri fondatori, Carl Baldassarre (chitarra, basso) e Sam Giunta (tastiere), suonano insieme fin dagli anni 80, proponendo un interessante heavy prog, per poi decidere di registrare un album con un vicino di casa di Sam, Paul Mihacevich, alla batteria. Tale album e' un miscuglio di prog classico: i tre americani attingono a piene mani dal lascito di Genesis ed ELP in primis, forse anche un po' di Kansas, per miscelare il tutto e proporre una propria idea di musica. Si tratta di un brano calmo ed atmosferico, orecchiabile e catchy, molto piacevole. I tre riemergeranno dieci anni (e nove figli) dopo col nome Syzygy, oggigiorno relativamente conosciuti nell'ambiente.
 

Zoundworks - The Hole (da 2014, 2014)
Zoundworks e' il nome scelto da Erik de Beer per un altro dei suoi spin-off. Erik e' un musicista olandese, fondatore ed unico membro dei Life Line Project e componente del power trio Brancard. Qui Erik suona la chitarra, il basso, le testiere, la batteria, il flauto ed altri strumenti, ma non canta, per cui si avvale dell'aiuto di tre cantanti diversi. Credo che questa sia una delle canzoni piu' emozionanti, struggenti ed emotive che abbia mai ascoltato, la potenza lirica e' davvero notevole, ed e' incredibile come una perla del genere sia incastonata in un album cosi' di nicchia.