venerdì 14 dicembre 2018

L'Albero del Veleno - Le Radici del Male (2013)

Il rinnovato interesse nei confronti dei b-movie italiani degli anni '70 e il conseguente sdoganamento di sottogeneri come il noir, il sexy-horror, lo spaghetti-thriller e i "poliziotteschi" – anche ad opera di personaggi autorevoli come Quentin Tarantino – hanno sicuramente influito sulla riscoperta delle colonne sonore cinematografiche, un settore nel quale gli italiani hanno piu' volte dimostrato di essere dei veri e propri maestri. Dai temi classici di Morricone, Bacalov, Frizzi, Simonetti, Vince Tempera e molti altri, alle esperienze sonore di gruppi quali Goblin, Daemonia, Osanna, Calibro 35, ecc., l’Italia si e' guadagnata il titolo di patria della "musica per immagini". In paesi come la Svezia, giusto per riportare un esempio concreto, la grande passione per le musiche del cinema horror italiano degli anni '70 ha spinto una giovane generazione di artisti (Anima Morte, Morte Macabre, Nicklas Barker, ecc.) a coniare la formula “vintage italian progressive horror music”.

Oggi al gia' lungo elenco di nomi illustri si aggiunge un nuovo gruppo, L'Albero del Veleno, band di Firenze le cui origini risalgono ai primi anni del decennio in corso, quando la tastierista Nadin Petricelli fa ascoltare alcune bozze al suo amico batterista Claudio Miniati, bozze che traevano principale ispirazione dalle colonne sonore di film horror europei anni '60, '70 ed '80, pellicole di Luigi Fulci in particolare. Miniati e' un altro grande appassionato di cinema horror e rimane folgorato dalle composizioni dell'amica, cosi' tanto che pensa sia il caso di mettere su una band. L'intento dei due e' quindi quello di proseguire sulla strada della musica da colonna sonora, soundtrack horror in particolare, quindi requisito fondamentale dei musicisti che vanno ora a reclutare e' la passione per quel particolare genere cinematografico. Nasce cosi' L'Albero del Veleno, composto dai gia' citati Petricelli e Miniati, ai quali si aggiungono Lorenzo Picchi alla chitarra, Marco Brenzini al flauto, Francesco Catoni alla viola e Michele Andreuccetti al basso, e con questa formazione viene pubblicato Le Radici del Male per la Lizard Records nel 2013. La loro e' una musica dark, gotica, completamente strumentale, che cerca di essere piu' fedele possibile alle atmosfere create dai quei film che piacciono tanto ai nostri musicisti, quindi non parlerei di atmosfere deprimenti o malinconiche o tristi, piuttosto ossessive, tese, nervose, inquietanti. Tastiere e viola solitamente conducono, coadiuvate dalla sezione ritmica, mentre chitarra e flauto fanno da contorno, senza risparmiarsi in soli ed excursus: il risultato e' molto piacevole, L'Albero del Veleno non ricorda i Goblin come qualcuno potrebbe pensare, sono invece molto piu' vicini alla tradizione progressiva italiana rispetto al gruppo di Simonetti, per quanto riguarda stili ed influenze. Il flauto, strumento poco incline ad arie oppressive e decadenti, fa da trait d'union fra gli intenti orrifici del gruppo e le radici progressive che comunque accomunano i sei musicisti; la musica che ne viene fuori e' un ottimo prog rock italiano molto incline al doom ed al goth, sempre teatrale e drammatico, mai eccessivo o sgradevole. Un altro paio di peculiarita' prima di addentrarci nel lavoro vero e proprio: l'ultima traccia e' un medley di melodie e motivi presi da soundtrack di vari lavori di Luigi Fulci, colonne sonore dei cui film sono state scritte da Fabio Frizzi; il metodo di lavoro di questi musicisti e' molto interessante, infatti si parte da sceneggiature (vere) di cortometraggi (fittizi) scritte a turno dai vari componenti del gruppo e sulle quali si cerca di comporre la piu' adatta e calzante musica possibile.
Il lavoro si apre con "Dove Danzano le Streghe", subito inquietante con i suoi tappeti di tastiere e viole che compongono l'introduzione, aiutati dal flauto, a creare un'atmosfera in crescendo sulla quale si innesta la chitarra verso meta' brano con un assolo ficcantissimo, salvo poi lasciare la conduzione al pianoforte, il quale si lascia andare ad un altro assolo di rara bellezza; il brano rallenta e si calma ad un minuto dalla fine, per una conclusione piu' atmosferica che mai. La seconda traccia, "...e Resta il Respiro", parte nuovamente con una intro per tastiere, viola e flauto, molto decadente e drammatica, con la chitarra che quando si intromette cambia le carte in tavola, descrivendo un altro indovinato riff, mentre gli altri strumenti salgono e si intensificano all'unisono, per uno schema che abbiamo gia' avuto modo di apprezzare nella canzone precedente; struttura che non cambia neanche nel portare a conclusione il brano, grazie ad una netta accelerata prima ed una decisa sterzata poi, a far crescere la tensione ed appesantire l'aria. "Presenze dal Passato", con i suoi 4 minuti, e' la traccia piu' breve del disco e quella piu' malinconica probabilmente, condotta dalla viola con leggere pennellate di pianoforte, non presenta stavolta variazioni particolari, il tema portante e' solido abbastanza da reggere l'intera canzone. Si prosegue con "Un Altro Giorno di Terrore", della quale esiste anche un videoclip: canzone piu' rock e piu' spensierata della precedente nell'incipit, grazie al lavoro della chitarra e del flauto le cui linee si incastrano alla perfezione; la viola sale gradualmente sostituendo il flauto nella conduzione ed affiancandosi alla chitarra (queste sono le soluzioni musicali che tanto piacciono a noi prog aficionados) e contribuendo cosi' a portare l'atmosfera su territori piu' freddi e solenni; e' ora il turno del flauto nel cercare di reintromettersi nella melodia scalzando stavolta la chitarra e cambiando ancora una volta l'atmosfera, ora un po' piu' allegra ma sempre in qualche modo algida; uno dei brani migliori senza dubbio. "Due Anime nella Notte" comincia con agghiaccianti pulsazioni di basso, che creano la base per un altro indovinato motivo per tastiere e flauto; ben presto si innestano anche chitarra e viola, introducendo leggere variazioni e spunti personali, ma senza stravolgere troppo una traccia gia' assestata su binari solidi. Infine, degna conclusione del disco e' il brano "Al di la' del Sogno... l'Incubo Riaffiora", collage di vari spunti musicali che traggono libera interpretazione dalle colonne sonore dei film di Fulci, film che sinceramente non ho mai visto; 12 minuti di arie horror/thriller, sicuramente sempre interessanti e che sanno intrattenere, e' un po' una summa di quanto sentito finora.
Dal comunicato stampa con cui fu lanciato il disco si legge "L'Albero Del Veleno pianta le sue radici nel 2010 per creare musica strumentale seguendo lo stile nato dalle colonne sonore dei film thriller e horror degli anni '60, '70 e '80. Le varie influenze musicali, assieme alla passione per il cinema, vanno a formare un progetto fortemente introspettivo ed emozionale, reso ancor piu' particolare dall'apporto video presente in tutte le performance dal vivo; ogni brano scritto e' infatti affiancato da una sceneggiatura originale per la realizzazione di cortometraggi. La band si occupa inoltre della composizione di colonne sonore per film horror su richiesta". Album consigliatissimo.

giovedì 13 dicembre 2018

Il problema non e' mai stato la musica

Fin dai primi concerti di musica classica a meta' '700, la musica e' stata additata come la causa del declino della societa', in ogni Paese ed in ogni periodo storico. La musica, in quanto forma d'arte, si e' fatta carico dell'espressione dei sentimenti popolari, ed ha sempre fornito un ottimo strumento di analisi sullo stato della societa'. Se i politici fossero piu' intelligenti o applicassero il metodo scientifico, analizzerebbero testi e significati delle canzoni di musica moderna per avere una fedele prospettiva circa lo stato di un Paese e di una societa'. Invece piuttosto la musica viene incolpata di essere l'origine dei mali che essa stessa denuncia, in un corto circuito logico di rara assurdita'.
Nel pezzo che segue la Trap potrebbe benissimo essere sostituita dal rock'n'roll, dal punk, dal reggae, dal rap, dal blues, persino dal jazz ai suoi tempi.


Ho studiato la Trap come fenomeno sociale, sia quella italiana che americana. Ho fatto delle interviste qualitative ai ragazzi che l'ascoltano, li ho frequentati, sono andato (sto andando) negli istituti superiori a parlarne, ho organizzato pure un paio di concerti per loro. Quindi ho qualche vaga nozione di quello che sto per scrivere. L'ultimo problema che abbiamo in Italia (credo se la giochi alla pari con il terrapiattismo) è Sfera Ebbasta. Il ragazzotto in questione fa esattamente il mestiere per cui è pagato e seguito: racconta i conflitti, desideri, problemi della sua generazione e di quella seguente. Lo fa con un linguaggio (musicale e testuale) comprensibile al suo uditorio, linguaggio che non ha inventato lui, ma è una fusione delle serie tv, dei film, della musica pop e del gergo giovanile della sua generazione. Lui non ha creato nulla, lo ha solo interpretato e reso visibile. E qui sta il vero problema, che non è suo né del suo uditorio, ma vostro. La realtà che vi sputa in faccia senza filtri non la capite, vi fa paura, vi sembra un incubo distopico. Codeina ed eroina sono tornate, circolano fra i ragazzi in quantità che non immaginate, a costi bassi nemmeno fossero brani scaricabili da Spotify. Le ha diffuse la Trap? No, circolavano da tempo come sedativi contro l'ansia dell'isolamento sociale, del non avere futuro, dell'essere inchiodati nel circolo eterno di lavori precari e sottopagati. La Trap si limita a farvi vedere quanto sono presenti e pervasive. Le ragazzine minorenni che vendono immagini/video porno per una ricarica da 10 euro del cell, che scopano con il ragazzo con più follower della scuola per poi postare una foto su Instagram e guadagnare 100 like in più, che si fanno chiamare troie e se ne vantano in opposizione al neobigottismo del politicamente corretto, non esistono perché ci hanno scritto delle barre Sfera o la Dark Polo Gang. Sono le sorelle povere e politicamente scorrette di Chiara Ferragni, la stessa che portate in palmo di mano come esempio di giovane imprenditrice di successo, innovatrice di marketing, donna consapevole ed emancipata. Il motto "No way out" che è la bandiera della Trap, non l'hanno coniato Lil Peep o Ghali, ma è ripreso da un famoso discorso della Margaret Thatcher, in cui la premier di ferro inglese davanti alla macelleria sociale conseguenti alle riforme neoliberali sosteneva non ci fosse altra strada, altro mondo possibile, se non quello del tutti contro tutti per le ultime briciole del benessere. Voi questo discorso l'avete ripetuto fino alla nausea nelle scuole, nei media, nelle convention di marketing ed economia, che loro l'hanno interiorizzato, fatto diventare un'estetica e uno stile di vita. Vi fa schifo vederli agghindati con rolex da 50.000 euro, Nike anni '90 da 500 euro a botta, felpe Pyrex pagate 10 volte il loro prezzo di produzione? Chi ha inventato il feticismo del logo, il marketing che associa dei "valori" ad un brand aziendale, la delocalizzazione per aumentare i dividendi degli azionisti? Non certo loro, non erano nemmeno stati concepiti quando voi idolatravate MTV, celebravate i prodotti Apple come fossero rivelazioni divine, vi riempivate la bocca di delocalizzazione e abbattimento dei costi di produzione per favorire la ripresa del consumo. Adesso vedete gli effetti incarnati di quello che predicavate (ma soprattutto praticavate ogni giorno, da 30 anni a questa parte) e vi fanno paura? Il problema non è di Sfera né dei ragazzini che lo ascoltano, ma vostro. Vi fanno ribrezzo perché sono voi senza le vostre menate buoniste, la vostra retorica dei veri sentimenti, il vostro moralismo da squali che piangono dopo aver divorato la preda? Nessuno ama guardarsi allo specchio, ma proprio per questo è necessario, e la musica pop è il più grande e fedele fra gli specchi.
Comunque la Trap non è un problema, anzi: permette un ponte fra le generazioni, di entrare nell'immaginario dei giovani e giovanissimi per capire il loro problemi e provare a dare loro una risposta, permette di avere un linguaggio condiviso per parlarci da pari a pari. Ma a voi capire e dare risposte ai loro problemi non interessa, non vi interessa nemmeno parlarci. Vi basta metterli in riga, farli stare zitti, nascondere sotto il tappeto le contraddizioni e la solitudine a cui li costringete. Non siete intellettuali, critici, insegnanti o educatori: siete l'ennesima incarnazione dell'eterno fariseo.


Federico Leo Renzi

mercoledì 17 ottobre 2018

Non viviamo per essere salvi, viviamo per essere giusti

E' un periodo storico in cui la mia fede nell'umanita' e' ai minimi termini, fra rigurgiti autoritaristici in aumento quasi globalmente, semianalfabeti che si ritengono allo stesso livello culturale di fisici nucleari e neurochirughi, ed un pianeta che sta morendo mentre il mondo occidentale fa spallucce, i piccoli grandi gesti di umanita', di compassione, ma anche di buon senso e di ribellione ad un sistema ingiusto mi fanno riconquistare un minimo di fiducia. Quando poi questi gesti sono eclatanti ed eroici come quello che e' successo a Riace magari per un giorno o due posso anche pensare che ci sia ancora speranza. A tal proposito, vorrei esporre il parere di un professore di legge dell'Universita' della Calabria, parere che mi e' stato passato tramite messaggio da mia mamma, giurista anche lei.


Ho atteso alcuni giorni prima di intervenire pubblicamente sull’arresto del sindaco di Riace. Ho voluto prima leggere l’ordinanza del Gip, ho voluto riflettere su tanti commenti, ho voluto lasciar sedimentare le mie emozioni. Per diverse ragioni – non ultimo, il mio ruolo di docente di materie giuridiche che insegna ai propri allievi il valore della legge, il diritto della critica e dell’impegno per cambiare le norme ingiuste ma anche il dovere di rispettarle finché vigenti – ho ritenuto di non poter confinarmi in uno slogan (io sto con Mimmo Lucano, questo è certo) ma di dover articolare il mio pensiero, distinguendo alcuni profili, a mio avviso i più rilevanti, della vicenda. C’è innanzitutto l’aspetto giuridico-formale. Posto che il Gip liquida molti dei capi d’accusa (e inviterei tutti a soffermarsi su questo dato: è abbastanza raro che un Procuratore capo sia così clamorosamente smentito in sede di valutazione delle richieste di misura cautelare) e che la vicenda dei matrimoni combinati è risibile (è davvero incredibile che per un (1) matrimonio forse combinato e un (1) matrimonio suggerito e nemmeno celebrato si parli di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina) l’unica accusa rimasta in piedi è quella relativa all’affidamento diretto del servizio di raccolta differenziata a cooperative prive dei requisiti richiesti. Rispetto a questa accusa Mimmo Lucano è un cittadino come tutti gli altri. Dovrà difendersi secondo le regole, ha diritto ad essere considerato innocente fino all’ultimo grado di giudizio e dovrà pagare nel caso abbia sbagliato. Si può e si deve aggiungere che non gli viene contestato nessun arricchimento personale, che l’affidamento riguarda un servizio erogato in un piccolissimo centro abitato e quindi per importi molto contenuti e che è del tutto evidente la sproporzione dei mezzi d’indagine utilizzati e della misura cautelare applicata, ma chiunque – anche se vittima di un accanimento investigativo – deve essere giudicato come tutti gli altri. Accanto a queste considerazioni ci sono quelle più propriamente politiche. Le dichiarazioni di Salvini (e anche di alcuni deputati 5 stelle) sono inaccettabili in qualunque contesto democratico. La criminalizzazione delle idee altrui, la volontà di annientamento degli avversari, l’odio sparso a piene mani, la strategia di estremizzazione delle posizioni ravvivano ancora una volta l’allarme sullo scivolamento di questo paese verso una democrazia svuotata dei propri valori e riempita di autoritarismo. Allo stesso modo, l’azione sempre più dura di pezzi della magistratura e dell’apparato statale in Calabria sta conducendo verso l’azzeramento di esperienze scomode e alternative, con il rischio (o la volontà) di sterilizzare i fermenti positivi che ancora si sviluppano in questa Regione. Tra scioglimenti dei comuni, interdittive antimafia e ordinanze di custodia cautelare poi annullate si sta colpendo – da Cortale a Gioiosa a Riace – sempre più spesso chi non è allineato. Guardare alla magistratura e/o alle prefetture con la massima fiducia e con la speranza che da loro venga lo sradicamento della ‘ndrangheta e della mala politica non può significare accettare acriticamente che esse si posizionino oltre la legge. Ma non è ancora questo il punto. Se si inscrive la vicenda di Mimmo Lucano dentro un perimetro esclusivamente legalitario o politico non si può comprendere quello che è accaduto in questi anni a Riace. Riace è stato un modello si è chiesto qualcuno in questi giorni? Penso di si, penso anche che forse lo abbiamo rivestito di una retorica eccessiva e non abbiamo voluto vederne alcuni limiti (ad esempio, si dovrebbe riflettere sulla capacità o meno di generare sviluppo economico duraturo una volta ripopolati i borghi), ma Riace ha parlato al mondo della possibilità di salvare le vite degli ultimi, di dar loro una speranza, di costruire incontri, di privilegiare l’umanità invece del denaro. E soprattutto Mimmo Lucano è stato un uomo, un uomo che ha caparbiamente e generosamente dedicato le proprie energie verso uomini e donne che non conosceva, che avevano un altro colore dal suo, che scappavano da guerre lontane. Un uomo che ha fatto indubbiamente, evidentemente, costantemente del bene. E’ per questo dato – l’umanità che trionfa in un minuscolo paesino della Locride mentre soffre nel resto del mondo – che Mimmo Lucano dovrebbe essere candidato per il premio Nobel della Pace. Anche, o forse soprattutto, se avesse violato qualche norma procedurale o non avesse osservato qualche disposizione di legge. Per i suoi eventuali errori dovrebbe pagare, ma allo stesso tempo per i suoi evidenti e straordinari meriti dovrebbe essere riconosciuto per quello che è: un uomo speciale, un  eroe. Qualche giorno fa, prima di questa vicenda, all’inizio del mio corso ho chiesto ad alcuni studenti di leggere un libro di Natalia Ginzburg (Serena Cruz, o la vera giustizia) per poi discutere del rapporto tra legge e giustizia. La tensione tra legge e giustizia affonda nella notte dei tempi e sappiamo anche che non sempre chi sta dalla parte della giustizia ottiene ragione. Ma questo non è un motivo sufficiente per non continuare a stare dalla parte degli indiani, come direbbe il mio amico Giancarlo Rafele. Chi, come me, insegna diritto nelle aule universitarie, insegna – deve insegnare - anche a non trasgredire la legge. Ma se mai mi capitasse di essere sindaco della mia città e di trovarmi dinanzi ad una regola che sento profondamente ingiusta e dalla quale può dipendere la vita di una persona, proprio come Mimmo Lucano non esiterei, assumendomene tutte le responsabilità, a trasgredirla. Non viviamo per essere salvi, viviamo per essere giusti.

venerdì 30 marzo 2018

Titus Groan - Titus Groan (1970)

I Titus Groan sono una band inglese attiva alla fine degli anni '60 che riesce a pubblicare un solo album, omonimo, nel 1970, e che prende il nome da un romanzo gotico di Mervyn Peake, molto simile a Tolkien nello stile. A tale album seguira' la pubblicazione di tre singoli che pero' risulteranno essere l'ultimo lascito di questo gruppo che si scioglie di li' a poco e svanisce nell'oblio rock. Questi tre singoli diventeranno poi bonus track della ristampa dell'album in questione, ristampa che consiglio caldamente visto che le tre canzoni menzionate sono alcune fra le migliori. Come tantissimi gruppi tardo sessantini, i Titus Groan fanno inconsapevolmente prog, nel senso che mischiano diversi stili nel tentativo di risultare originali e contribuiscono cosi' alla nascita di un nuovo genere, esattamente come Jethro Tull, Gentle Giant e molti altri. Ho citato questi due gruppi perche' il sound dei Titus Groan vi si avvicina molto, tentando una commistione di folk, hard rock e jazz, con fiati come flauto ed oboe che donano quel tocco folk, e la chitarra che si prende la responsabilita' di occuparsi della parte piu' rock, il tutto in maniera molto melodica ed orecchiabile, senza spigolosita' o soluzioni audaci. I musicisti sono Stuart Cowell a tastiere, chitarra e voce, Jim Toomey alla batteria, Tony Priestland suona sax, flauto ed oboe, infine John Lee e' il bassista, tutti scomparsi nel nulla al termine di questa fugace avventura, a parte Toomey che suonera' per qualche altro anno nei Tourists prima di sparire anche lui. Val la pena fare menzione del fatto che i Tourists sono stati una band pop inglese attiva nei tardo anni '70 dalla quale emergeranno Annie Lennox e Dave Stewart, fondatori ed unici membri degli Eurythmics. E devo quindi tessere le lodi di etichette come la Esoteric Recordings, che stanno facendo un lavoro di recupero e restauro incredibile, riportando alla luce band oscure ma validissime, che ebbero l'unica colpa di essere troppo in anticipo sui tempi.
Si parte con It Wasn't For You, pezzo di 5 minuti e mezzo molto rockeggiante e jazzato, con chitarra e fiati in grande evidenza. Non uno degli episodi piu' rilevanti dell'album, ma canzone piacevole e scorrevole, che mette subito in chiaro gli intenti della band. Segue il brano piu' lungo, i quasi 12 minuti di Hall of Bright Carvings, un po' il "manifesto" del gruppo, visto che vi sono concentrati tutti gli stili e tutte le influenze che questi ragazzi hanno assorbito e sono in grado di riprodurre. Inutile dire che e' una delle migliori canzoni del disco, anche se non la mia preferita, e che e' molto facile perdercisi, visto che non segue una struttura regolare, e' un'alternanza di umori e di atmosfere, sfuriate strumentali e momenti piu' calmi, cori e fiati, basso e batteria sempre protagonisti, assoli di chitarra, un gran bel sentire insomma. La terza traccia, I Can't Change, e' una delle meglio riuscite ed una delle mie preferite, condotta da flauto e voce, leggermente malinconica e tendente al folk, anche se la batteria incalzante e la chitarra sempre presente vivacizzano l'atmosfera; il prog esplode verso la meta' (la canzone e' lunga 5 minuti) con un refrain che taglia completamente con quanto sentito finora, fra la psichedelia e il jazz, per poi lanciarsi in un pezzo rock'n'roll quasi country prima e tendente al pop dopo. Strumenti e voce cambiano camaleonticamente durante tutta la durata della canzone per adattarsi ai diversi stili rappresentati; ragazzi, questo e' un gran pezzo. It's All Up With Us comincia con una bella intro di sax, basso e voce, morbida e catchy, a meta' fra folk e pop, per poi evolvere sugli stessi binari con gli strumenti che a mano a mano si intromettono e si incastonano nel sound; pezzo che non presenta cambiamenti netti o variazioni spinte, forse il brano piu' omogeneo del disco, ma che fa volare i 6 minuti di durata grazie all'indovinata melodia. Fuschia (scritto proprio cosi', e' un typo) e' un'altra delle mie canzoni preferite e chiudeva la versione originale di quest'album; molto rockeggiante, chitarra abrasiva e flauto sullo sfondo, la voce si occupa della conduzione, grazie ad un motivo ancora una volta piacevolissimo e di facile assimilazione. Di nuovo 6 minuti di canzone che non sfoggia particolari cambi di stile, ma la melodia, quella si' che cambia, ed e' sempre un gran sentire, e' come due o tre tracce pop racchiuse in una. Sesta traccia della ristampa, Open the Door Homer, segna un piccolo cambiamento verso sonorita' piu' accessibili che caratterizzano tutte e tre le bonus track; non una rivoluzione, non un cambiamento cosi' evidente, ma si percepisce il tentativo della band di andare oltre il fallimento commerciale dell'album, cercando di rendere lo stile piu' semplice e di immediata fruizione. Canzone di tre minuti e mezzo, trascinata da voce e flauto, un pop carino e nulla piu'. Woman of the World migliora un tantino, sempre di pop rock si tratta, ma si sente anche blues e folk, inoltre il fatto di aver mantenuto i fiati come parte portante della melodia segna punti a favore del nuovo sound, che cosi' diverso dal vecchio poi non e', giusto un pochino piu' semplice. E questa sensazione e' confermata dall'ultima traccia e terza bonus track, Liverpool, di nuovo quasi 6 minuti di lunghezza, mix di diversi stili, cambi di tempi e sonorita' nella stessa canzone, melodia sempre e comunque orecchiabile, ci sono tutti gli ingredienti per un'ottima canzone prog e degno finale di un lavoro molto riuscito.
Inutile ripetersi ancora sulla magnificenza della musica proveniente da quel periodo, i lavori di scavo dell'underground inglese continuano a dissotterrare gemme imperdibili come questa, quindi e' meglio tenersi aggiornati.

giovedì 25 gennaio 2018

Hail Spirit Noir - Mayhem in Blue (2016)

Gli Hail Spirit Noir sono una band greca di Tessalonica, nati nel 2010 e con tre album all'attivo: i primi due piu' inclini verso il metal, quest'ultimo Mayhem In Blue invece e' molto piu' prog, quindi presenta diversi stili ed influenze, come da tradizione. I membri ufficiali sono solo tre, il cantante e chitarrista Theoharis Liratzakis, il sintetizzatorista Haris, entrambi membri di Transcending Bizarre? e Rex Mundi, band black metal e thrash metal rispettivamente, ai quali si aggiunge il session-man Dimitris Makrantonakis, bassista, chitarrista e tastierista che ha preso parte a lavori di Transcending Bizarre? e Synesthesia fra i tanti. I tre si avvalgono dell'aiuto di altri musicisti per completare i propri lavori, in questo caso abbiamo Dimitris Dimitrakopoulos alla voce pulita e Håkon Freyr Gustafsson alla batteria. Il particolare della voce pulita e' chiave in questo contesto, infatti marchio di fabbrica inconfondibile e' la voce graffiante, rauca, black metal di Theoharis, che aggiunge quel tocco di peculiarita' ad un sound gia' unico di suo. Il suono della sua voce all'inizio non piacera', io stesso non l'ho ancora completamente assorbito e sto ascoltando questo album da un paio di mesi a questa parte, pero' francamente se provo ad immaginare questo disco con un'altra voce non sono sicuro che mi piacerebbe alla stessa maniera.

Il gruppo descrive il proprio sound con le seguenti parole: "Un miscuglio di elementi psichedelici, musica horror, melodie tristi e black metal moderno", descrizione che calza a pennello, ma io aggiungerei che i nostri amici greci "semplicemente" fanno prog, un prog originale, trascinante e particolare al punto giusto. Molti gruppi hanno cercato un connubio psych/black con scarsi risultati, mentre gli Hail Spirit Noir riescono a trovare la giusta miscela, grazie a tastiere spacey molto seventies che ci portano in territori da trip acidi, e grazie a chitarra e batteria che donano quel tocco metal con drumming e riff pesanti, ma la cosa piu' stupefacente e' che il sound si mantiene comunque orecchiabile e di non troppo difficile assimilazione. Dopo un paio di ascolti le melodie cominciano ad essere riconoscibili, anche se ci vuole un po' piu' di tempo prima che il lavoro conquisti. Ancora una volta, tempo ben impiegato.
L'album e' diviso in 6 tracce per 40 minuti di musica, 40 minuti che passano in un attimo. Canzoni bizzarre e musica eccentrica, ma raramente inquietante e mai spiacevole, il gruppo ingentilisce i toni e smussa gli spigoli degli album precedenti, per regalarci un'opera piena di ritmo e groove, aspra e ruvida quanto basta, imprevedibile senza scadere nella confusione, variegata, ricca, infernale, un gioiellino insomma.
Si apre con I Mean You Harm: suoni spaziali fanno da introduzione, poi chitarra, basso e batteria fanno partire un indovinato motivo hard rock, con subito la voce che incalza e l'organo che decora il tutto con note psichedeliche ed agghiaccianti. La canzone prosegue su questi toni fino alla fine, con un ottimo lavoro di basso e batteria che contribuiscono a mantenere il ritmo su binari spediti e coinvolgenti. Il suono della voce spiazza al primo ascolto, non e' un suono aggraziato e neanche piacevole, e' di sicuro particolare e necessita di numerosi ascolti per essere digerito, o almeno cosi' e' stato per me. Un po' come la voce di Ferretti, all'inizio sembra la cosa piu' brutta del mondo, poi, una volta assimilata, si comprende che la musica dei CCCP non potrebbe essere concepita senza la sua voce.
Si continua con Mayhem in Blue, il primo pezzo lungo con i suoi quasi 8 minuti: l'introduzione e' di nuovo lasciata al sintetizzatore che, accompagnato da basso e batteria, ci porta di nuovo nello spazio gelido e profondo; l'atmosfera si addensa e si appesantisce, l'aria si fa greve quando la voce si intromette, stavolta pulita, di fatto a prendere il controllo del brano. Voce e sintetizzatore si alternano cosi' alla conduzione fino a meta' canzone circa, quando i ritmi si abbassano senza pero' perdere in drammaticita', e stavolta e' la chitarra a fare da protagonista, con arpeggi lisergici, salvo poi lasciare il campo al sintetizzatore nuovamente che si unisce a basso e batteria per far ripartire il ritmo e riportare l'aria alla pesantezza cui ci aveva abituati. Si prosegue cosi' fino alla fine, la drammaticita' e' tangibile e tutti gli strumenti, compresa la voce ora gracchiante come non mai, si uniscono per un finale teso e tragico.
Riders To Utopia, la terza traccia, stavolta comincia con organo e synth, molto marziale e severa, in seguito voce e chitarra subentrano con un motivo indovinato ed orecchiable molto incline al metal, che si alterna al motivo di organo sentito in apertura per il resto della canzone. Brano che scorre via in un lampo tant'e' veloce e affascinante, infatti i due loop descritti sono cosi' solidi da reggere da soli tutta la traccia. Canzone che comunque evolve e mostra diverse sfaccettature e spunti personali.
Nella canzone seguente, Lost in Satan's Charm, secondo ed ultimo pezzo lungo della durata di quasi 11 minuti, il pezzo iniziale e' qualcosa di circense o carnevalesco, ma con clown assassini armati di asce ed affamati animali zombie, tanto decadente e tragica e' l'atmosfera resa da synth e voce, con tanto di percussioni e campane ad accentuare la sensazione di essere in uno scenario horror. Verso i due minuti e mezzo il pezzo cambia completamente, la chitarra subentra con un altro riff roccioso e metallico, sul quale si innesta la voce, nuovamente pulita, e l'organo, a descrivere un motivo molto catchy. Ma cio' non e' sufficiente per i nostri musicisti greci, che pensano bene di cambiare nuovamente registro verso meta' brano, con la voce che perde grazia e la chitarra che si incattivisce, lanciandosi nell'ennesima variazione sul tema; sempre rimarchevole il lavoro svolto dalla sezione ritmica. Grazie all'alternanza di quanto fatto sentire finora in questo brano, la canzone e' portata fino alla fine con una facilita' disarmante, il talento dei musicisti e' palese ed e' dimostrato dal fatto che nessun riff, quando ripetuto, e' uguale a se stesso, c'e' sempre qualcosa di diverso, un particolare in piu', un dettaglio trasformato.
The Cannibal Tribe Came From the Sea ci fa ora viaggiare su lidi seriamente spaventosi ed orripilanti, questa traccia si appoggia alla voce ed agli intrecci chitarra/organo per prendere una direzione psichedelica e metal, tirata e francamente bellissima. Visto che siamo comunque in ambito prog, il brano cambia ancora prima di aver raggiunto la meta', il ritmo scende per un attimo ma poi reincalza, la chitarra si fa acida ed aggressiva, il pezzo diventa un'altalena di umori diversi, fra psichedelia e toni freddi, soli di chitarra metal, marce tribali, suoni ossessivi e ripetitivi, voce graffiante.
Infine, How to Fly in Blackness, l'ultimo pezzo, e' il piu' diverso del disco e la ciliegina sulla torta a chiudere un album vicino alla perfezione secondo il mio modesto parere. La voce e' pulita, le tastiere atmosferiche, ritmo ora basso e si ode persino un piacevole sax di sottofondo. Le tastiere sono grandi protagoniste di questa traccia, descrivendo un motivo tenue, lento e celestiale, al quale pero' non e' permesso tirarci su troppo l'umore, grazie al basso ed alla batteria che mantengono l'aria drammatica e solenne. A questo punto anche la voce si lascia trascinare dalla gravita' della situazione, facendosi piu' abrasiva. Il brano viene lasciato gradualmente tranquilizzare, gli strumenti lentamente scemano ed una chitarra acustica porta la canzone a degna conclusione.
Un album avventuroso, memorabile, dinamico, che non si lascia spaventare dall'audacita' della proposta, ma anzi la sfrutta per sfoderare un suono unico ed originale, senza essere per forza complicato o arzigogolato, al contrario si mantiene semplice e catchy, ed e' questo il miracolo degli Hail Spirit Noir. Ad oggi il prog riesce ancora a regalarci affreschi musicali di rara bellezza, il prog non morira' mai perche' e' come l'universo, si espande e muta all'infinito.