La partita della sinistra
«Il
discorso sul capitalismo deve diventare subito la narrazione condivisa
di tutta la sinistra e la base reale delle sue opzioni pratiche». Il manifesto , 15 giugno 2012
Di che cosa si può parlare oggi? Di che cosa dovrebbe parlare la politica oggi?
Di solito la politica parla di se stessa. Schieramenti, alleanze,
elezioni. Tutt'al più, programmi e decisioni. Questa sembra la materia
naturale, questo l'oggetto di un discorso serio della e sulla politica.
Infatti di queste cose si continua a parlare, in modo più o meno decente
e coerente. Mentre, coerentemente, si persevera in pratiche consuete
(nomine e spartizioni varie). E invece questo è precisamente il discorso
che non si può più continuare a fare, che non è più possibile fare in
questo momento.
Se soltanto si avesse un vago sentore della gravità di quanto sta
succedendo e dei rischi che stiamo correndo, si metterebbe da parte
l'ordinaria amministrazione per guardarsi seriamente negli occhi. Che
cosa ci dice questo scenario esplosivo (crisi sociale, crisi finanziaria
degli Stati, distruzione degli apparati produttivi, ripresa dei
nazionalismi e delle tensioni internazionali e intercontinentali),
mentre le classi dirigenti europee non accennano a ripensare le
politiche praticate da trent'anni, responsabili del disastro? Che cosa
mostra, se non che questo sistema sociale (modello di sviluppo e
gerarchie di classe) ha generato non per caso l'attuale situazione?
In particolare la sinistra - in tutte le sue diramazioni - di che cosa
dovrebbe occuparsi, se non del fatto, sin troppo evidente, che sta
all'origine di questa crisi generale? Il capitalismo, lasciato solo, a
mani libere, senza minacce né avversari, da oltre vent'anni finalmente
libero di plasmare il mondo a proprio talento, sta ricreando
puntualmente le stesse condizioni di caos e di conflitto ingovernabile
che hanno prodotto i conflitti mondiali.
In questi vent'anni, dalla guerra del Golfo alla guerra economica che
sta spingendo l'Europa verso un abisso, abbiamo vissuto immersi in
un'ininterrotta sequenza di «scontri di civiltà»: contro il Sud del
mondo, contro le periferie del mondo capitalistico, contro le classi
lavoratrici. Stupefacente non è che di fronte a questo scenario (di
fronte al «fallimento dell'ordine economico mondiale», per riprendere
parole di Alfredo Reichlin, ormai un estremista nel suo partito) si
continui a parlare d'altro. Stupefacente è che si parli soltanto
d'altro, forse nell'illusione che tutto spontaneamente rientrerà nei
cardini. In fondo non ci si ripete da decenni che il mercato non ha
bisogno di governo né di regole, che basta a se stesso, che risolve da
sé le crisi che produce?
[...]
Questo vale a porre una domanda ai compagni non comunisti della sinistra
di alternativa. Oggi (da diversi anni, in verità) è senso comune
ritenere che il comunismo sia ormai un residuato bellico. Chi ancora si
ostini a definirsi, nonostante tutto, «comunista» e a pensare in termini
di classe e di sfruttamento del lavoro salariato è considerato un po'
scemo o stravagante: comunque un tipo da lasciar perdere, perché non ha
capito dove siamo e in che mondo viviamo, un po' come chi oggi andasse
in giro coi pantaloni a zampa d'elefante.
Questo senso comune è diffuso anche a sinistra e la cosa non stupisce.
Molte ragioni aiutano a spiegarla. La prima è che critiche al
capitalismo su basi diverse dal classismo ce ne sono sempre state (anche
di destra, del resto). Il capitalismo genera (o eredita ed esaspera)
molteplici contraddizioni sistemiche e «strutturali» (non in senso
marxiano). Distrugge l'ambiente, per esempio, e radicalizza i conflitti
di genere. Benché l'analisi di queste contraddizioni rischi di rimanere
monca se enucleata dal quadro di riferimento della «critica
dell'economia politica» (cioè dall'analisi del modo di produzione come
dispositivo-base della dinamica riproduttiva sociale), non è una novità
che ci sia anche una sinistra anticapitalista non marxista né comunista.
Una seconda ragione la indica lo stesso Marx quando sostiene che «le
idee dominanti sono quelle delle classi dominanti». È il nòcciolo un po'
ruvido di quella problematica che Gramsci indagherà in tutte le sue
complesse articolazioni sotto il titolo di «egemonia». Insomma, nel
rifiuto del comunismo pesa, forse, anche la subalternità all'ideologia
dominante, che da vent'anni (dalla caduta del Muro) o trenta
(dall'imporsi dell'egemonia neoliberista) viene trionfalmente
dichiarando obsoleta la prospettiva della trasformazione nel segno della
liberazione del lavoro dallo sfruttamento capitalistico. Un'altra
ragione - senza offesa per nessuno, ma senza nemmeno eccedere in
diplomazia - è l'opportunismo.
In generale il ceto politico evita il rischio di apparire poco
attraente, o addirittura respingente, a causa di riferimenti ideologici
caduti in disgrazia (in questo caso anche - occorre riconoscerlo - per
le responsabilità gravissime, storiche, delle leadership che li hanno
assunti come base o a pretesto delle proprie decisioni). Tanto più i
politici tengono a evitare tale rischio se attestarsi sul terreno
cruciale della critica del modello di sviluppo (cioè fondare la critica
del presente sul terreno costitutivo dei rapporti di produzione) porta
inevitabilmente a toccare nervi scoperti negli interlocutori con i quali
si tratta di ragionare in vista di alleanze di governo o di coalizioni
elettorali. Il discorso non è moralistico. Ma ci si dovrà pur chiedere,
prima o poi, per che cosa si lavora.
È assai probabile che, muovendosi in questo modo, escludendo dal proprio
orizzonte intellettuale e politico la critica del capitalismo, una
parte della sinistra di alternativa riuscirà a salvarsi dallo sterminio
politico al quale molti dei suoi attuali interlocutori l'hanno da lungo
tempo destinata.
[...]
Ma le aspirazioni dei politici non dovrebbero mai prevalere
sull'interesse sociale che essi intendono (e dichiarano di)
rappresentare. E dovrebbero essere concepite in modo razionale (cioè non
sul breve o brevissimo periodo). Un soggetto politico degno di questo
nome non può, in altri termini, traguardarsi alla scadenza di una
legislatura, decidendo il da farsi in base al calcolo delle probabilità
di mandare in Parlamento qualcuno dei propri dirigenti. Sarebbe la più
miope delle operazioni, mentre la società viene prendendo coscienza
della radicalità della crisi in atto e dei pericoli che la sovrastano.
I segnali di questa presa di coscienza si moltiplicano. In tutta Europa
(la forza di Syriza, e dei movimenti in Spagna, la crescita del fronte
anti-fiscal compact in Irlanda, persino la vittoria di Hollande e le
sconfitte elettorali della Merkel) e anche in Italia. Di questo parlano
l'esplosione del fenomeno Grillo, il dilagare dell'astensionismo, le
vittorie dei movimenti contro le privatizzazioni, la coraggiosa presa di
parola della Fiom, alla quale i politici hanno risposto in modo
ipertattico, reticente e omissivo.
Lo si è detto tante volte: siamo seduti su una polveriera, viaggiamo sul
Titanic a poca distanza dall'iceberg. Ma ormai non c'è bisogno di
Cassandre per sapere che non si tratta di esagerazioni. Per questo il
discorso sul capitalismo - discorso concretamente politico, che evoca
un'agenda di misure tese a ribaltare il dominio dei capitali sul lavoro e
sulla società, e a restituire alla moneta la funzione di mediare
socialmente la redistribuzione della ricchezza in modo da ridurre
progressivamente la sottomissione del lavoro e di allargare la sfera
della cittadinanza - deve diventare subito la «narrazione» condivisa di
tutta la sinistra e la base reale delle sue opzioni pratiche. Solo così
sarà possibile uscire da quello che sempre più assomiglia a un
catastrofico stallo. Diversamente, non ci sarà scampo per nessuno. E
nessuno, di fronte al disastro annunciato, potrà un domani rivendicare
la propria pretesa innocenza.
articolo originale
Il dio dello spread
Adesso è chiaro che il problema non è, non è mai stata la Grecia. Che
anche se dalle urne è arrivato primo il partito degli obbedienti di Nea
Democratia (gli stessi che hanno condotto Atene al disastro), non è
stato fatto nessun passo avanti per risolvere la crisi dell'euro. E, al
di là delle congratulazioni di maniera, anche la cancelliera tedesca
Angela Merkel non deve essere troppo soddisfatta. Era chiaro pure agli
orbi che la Germania stava cercando qualcunque appiglio per estromettere
la Grecia dall'euro. Se la formazione di sinistra Syriza avesse
ottenuto il primato, Berlino avrebbe avuto l'alibi che cercava per
espellere Atene dall'unione monetaria e avviare il processo di messa in
riga che auspica fin dall'inizio: commissariare o radiare tutti i paesi
Pigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna).
Ora invece
Berlino, il Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea
si trovano in un bel guaio: non possono punire i greci per aver votato
come gli veniva chiesto, ma non possono neanche «premiare» la Grecia
colpevole e debitrice. E il voto non ha ridotto il debito né rinviato le
scadenze delle rate.
Ecco perché i padroni dell'Europa si
ritrovano punto e a capo, quasi impotenti, con però due mesi in più
trascorsi e quindi con il sistema bancario della Spagna sempre più
vicino al crac, pronto a trascinare l'Italia con sé.
Nel 2009 alla
Germania sarebbero bastati 50 miliardi di euro per risolvere il problema
alla radice: per fermare la speculazione, l'unica è far perdere denaro
agli speculatori. Se i brookers che scommettevano contro l'euro ci
avesso subito rimesso, non avrebbero proseguito negli attacchi. Ma
ragioni elettorali, di convenienza finanziaria (lasciare alle banche
tedesche e francesi il tempo di disincagliarsi dai Pigs), di strategia
politica (usare la crisi dell'euro per serrare la presa franco-tedesca
sull'Europa) ci hanno portato al punto in cui non basterebbero 2.000
miliardi per salvare l'euro, perché tutta l'economia di riferimento è
ferma, con molti paesi in recessione gravissima. In Italia migliaia di
piccole e medie imprese chiudono o vendono a ritmo accelerato. I privati
convertono i propri beni in lingotti d'oro, gli assets vengono ritirati
dalle banche e trasferiti all'estero: il clima è da «si salvi chi può».
Il
problema dell'euro è sempre stato politico, non finanziario: non ci può
essere moneta unica senza politica economica comune e questa non è
possibile se non è gestita da un soggetto legittimo, cioè eletto a
suffragio universale europeo. Ma ora non c'è tempo materiale per avviare
la costruzione di un'entità politica «Euro» e - francamente - i popoli
non ne hanno nemmeno la volontà, dopo il modo in cui l'euro li ha
trattati e continua a punirli.
[...]
articolo originale
martedì 26 giugno 2012
Sono sempre piu' convinto che solo un cambiamento radicale potrebbe cambiare la situazione.
Pubblicato da bob alle 01:57
Etichette: italia europa capitalismo sinistra crisi
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