martedì 26 giugno 2012

Sono sempre piu' convinto che solo un cambiamento radicale potrebbe cambiare la situazione.

La partita della sinistra
«Il discorso sul capitalismo deve diventare subito la narrazione condivisa di tutta la sinistra e la base reale delle sue opzioni pratiche». Il manifesto , 15 giugno 2012
Di che cosa si può parlare oggi? Di che cosa dovrebbe parlare la politica oggi?
Di solito la politica parla di se stessa. Schieramenti, alleanze, elezioni. Tutt'al più, programmi e decisioni. Questa sembra la materia naturale, questo l'oggetto di un discorso serio della e sulla politica. Infatti di queste cose si continua a parlare, in modo più o meno decente e coerente. Mentre, coerentemente, si persevera in pratiche consuete (nomine e spartizioni varie). E invece questo è precisamente il discorso che non si può più continuare a fare, che non è più possibile fare in questo momento.
Se soltanto si avesse un vago sentore della gravità di quanto sta succedendo e dei rischi che stiamo correndo, si metterebbe da parte l'ordinaria amministrazione per guardarsi seriamente negli occhi. Che cosa ci dice questo scenario esplosivo (crisi sociale, crisi finanziaria degli Stati, distruzione degli apparati produttivi, ripresa dei nazionalismi e delle tensioni internazionali e intercontinentali), mentre le classi dirigenti europee non accennano a ripensare le politiche praticate da trent'anni, responsabili del disastro? Che cosa mostra, se non che questo sistema sociale (modello di sviluppo e gerarchie di classe) ha generato non per caso l'attuale situazione?
In particolare la sinistra - in tutte le sue diramazioni - di che cosa dovrebbe occuparsi, se non del fatto, sin troppo evidente, che sta all'origine di questa crisi generale? Il capitalismo, lasciato solo, a mani libere, senza minacce né avversari, da oltre vent'anni finalmente libero di plasmare il mondo a proprio talento, sta ricreando puntualmente le stesse condizioni di caos e di conflitto ingovernabile che hanno prodotto i conflitti mondiali.
In questi vent'anni, dalla guerra del Golfo alla guerra economica che sta spingendo l'Europa verso un abisso, abbiamo vissuto immersi in un'ininterrotta sequenza di «scontri di civiltà»: contro il Sud del mondo, contro le periferie del mondo capitalistico, contro le classi lavoratrici. Stupefacente non è che di fronte a questo scenario (di fronte al «fallimento dell'ordine economico mondiale», per riprendere parole di Alfredo Reichlin, ormai un estremista nel suo partito) si continui a parlare d'altro. Stupefacente è che si parli soltanto d'altro, forse nell'illusione che tutto spontaneamente rientrerà nei cardini. In fondo non ci si ripete da decenni che il mercato non ha bisogno di governo né di regole, che basta a se stesso, che risolve da sé le crisi che produce? [...]
Questo vale a porre una domanda ai compagni non comunisti della sinistra di alternativa. Oggi (da diversi anni, in verità) è senso comune ritenere che il comunismo sia ormai un residuato bellico. Chi ancora si ostini a definirsi, nonostante tutto, «comunista» e a pensare in termini di classe e di sfruttamento del lavoro salariato è considerato un po' scemo o stravagante: comunque un tipo da lasciar perdere, perché non ha capito dove siamo e in che mondo viviamo, un po' come chi oggi andasse in giro coi pantaloni a zampa d'elefante.
Questo senso comune è diffuso anche a sinistra e la cosa non stupisce. Molte ragioni aiutano a spiegarla. La prima è che critiche al capitalismo su basi diverse dal classismo ce ne sono sempre state (anche di destra, del resto). Il capitalismo genera (o eredita ed esaspera) molteplici contraddizioni sistemiche e «strutturali» (non in senso marxiano). Distrugge l'ambiente, per esempio, e radicalizza i conflitti di genere. Benché l'analisi di queste contraddizioni rischi di rimanere monca se enucleata dal quadro di riferimento della «critica dell'economia politica» (cioè dall'analisi del modo di produzione come dispositivo-base della dinamica riproduttiva sociale), non è una novità che ci sia anche una sinistra anticapitalista non marxista né comunista.
Una seconda ragione la indica lo stesso Marx quando sostiene che «le idee dominanti sono quelle delle classi dominanti». È il nòcciolo un po' ruvido di quella problematica che Gramsci indagherà in tutte le sue complesse articolazioni sotto il titolo di «egemonia». Insomma, nel rifiuto del comunismo pesa, forse, anche la subalternità all'ideologia dominante, che da vent'anni (dalla caduta del Muro) o trenta (dall'imporsi dell'egemonia neoliberista) viene trionfalmente dichiarando obsoleta la prospettiva della trasformazione nel segno della liberazione del lavoro dallo sfruttamento capitalistico. Un'altra ragione - senza offesa per nessuno, ma senza nemmeno eccedere in diplomazia - è l'opportunismo.
In generale il ceto politico evita il rischio di apparire poco attraente, o addirittura respingente, a causa di riferimenti ideologici caduti in disgrazia (in questo caso anche - occorre riconoscerlo - per le responsabilità gravissime, storiche, delle leadership che li hanno assunti come base o a pretesto delle proprie decisioni). Tanto più i politici tengono a evitare tale rischio se attestarsi sul terreno cruciale della critica del modello di sviluppo (cioè fondare la critica del presente sul terreno costitutivo dei rapporti di produzione) porta inevitabilmente a toccare nervi scoperti negli interlocutori con i quali si tratta di ragionare in vista di alleanze di governo o di coalizioni elettorali. Il discorso non è moralistico. Ma ci si dovrà pur chiedere, prima o poi, per che cosa si lavora.
È assai probabile che, muovendosi in questo modo, escludendo dal proprio orizzonte intellettuale e politico la critica del capitalismo, una parte della sinistra di alternativa riuscirà a salvarsi dallo sterminio politico al quale molti dei suoi attuali interlocutori l'hanno da lungo tempo destinata.
[...]
Ma le aspirazioni dei politici non dovrebbero mai prevalere sull'interesse sociale che essi intendono (e dichiarano di) rappresentare. E dovrebbero essere concepite in modo razionale (cioè non sul breve o brevissimo periodo). Un soggetto politico degno di questo nome non può, in altri termini, traguardarsi alla scadenza di una legislatura, decidendo il da farsi in base al calcolo delle probabilità di mandare in Parlamento qualcuno dei propri dirigenti. Sarebbe la più miope delle operazioni, mentre la società viene prendendo coscienza della radicalità della crisi in atto e dei pericoli che la sovrastano.
I segnali di questa presa di coscienza si moltiplicano. In tutta Europa (la forza di Syriza, e dei movimenti in Spagna, la crescita del fronte anti-fiscal compact in Irlanda, persino la vittoria di Hollande e le sconfitte elettorali della Merkel) e anche in Italia. Di questo parlano l'esplosione del fenomeno Grillo, il dilagare dell'astensionismo, le vittorie dei movimenti contro le privatizzazioni, la coraggiosa presa di parola della Fiom, alla quale i politici hanno risposto in modo ipertattico, reticente e omissivo.
Lo si è detto tante volte: siamo seduti su una polveriera, viaggiamo sul Titanic a poca distanza dall'iceberg. Ma ormai non c'è bisogno di Cassandre per sapere che non si tratta di esagerazioni. Per questo il discorso sul capitalismo - discorso concretamente politico, che evoca un'agenda di misure tese a ribaltare il dominio dei capitali sul lavoro e sulla società, e a restituire alla moneta la funzione di mediare socialmente la redistribuzione della ricchezza in modo da ridurre progressivamente la sottomissione del lavoro e di allargare la sfera della cittadinanza - deve diventare subito la «narrazione» condivisa di tutta la sinistra e la base reale delle sue opzioni pratiche. Solo così sarà possibile uscire da quello che sempre più assomiglia a un catastrofico stallo. Diversamente, non ci sarà scampo per nessuno. E nessuno, di fronte al disastro annunciato, potrà un domani rivendicare la propria pretesa innocenza.
articolo originale

Il dio dello spread
Adesso è chiaro che il problema non è, non è mai stata la Grecia. Che anche se dalle urne è arrivato primo il partito degli obbedienti di Nea Democratia (gli stessi che hanno condotto Atene al disastro), non è stato fatto nessun passo avanti per risolvere la crisi dell'euro. E, al di là delle congratulazioni di maniera, anche la cancelliera tedesca Angela Merkel non deve essere troppo soddisfatta. Era chiaro pure agli orbi che la Germania stava cercando qualcunque appiglio per estromettere la Grecia dall'euro. Se la formazione di sinistra Syriza avesse ottenuto il primato, Berlino avrebbe avuto l'alibi che cercava per espellere Atene dall'unione monetaria e avviare il processo di messa in riga che auspica fin dall'inizio: commissariare o radiare tutti i paesi Pigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna).
Ora invece Berlino, il Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea si trovano in un bel guaio: non possono punire i greci per aver votato come gli veniva chiesto, ma non possono neanche «premiare» la Grecia colpevole e debitrice. E il voto non ha ridotto il debito né rinviato le scadenze delle rate.
Ecco perché i padroni dell'Europa si ritrovano punto e a capo, quasi impotenti, con però due mesi in più trascorsi e quindi con il sistema bancario della Spagna sempre più vicino al crac, pronto a trascinare l'Italia con sé.
Nel 2009 alla Germania sarebbero bastati 50 miliardi di euro per risolvere il problema alla radice: per fermare la speculazione, l'unica è far perdere denaro agli speculatori. Se i brookers che scommettevano contro l'euro ci avesso subito rimesso, non avrebbero proseguito negli attacchi. Ma ragioni elettorali, di convenienza finanziaria (lasciare alle banche tedesche e francesi il tempo di disincagliarsi dai Pigs), di strategia politica (usare la crisi dell'euro per serrare la presa franco-tedesca sull'Europa) ci hanno portato al punto in cui non basterebbero 2.000 miliardi per salvare l'euro, perché tutta l'economia di riferimento è ferma, con molti paesi in recessione gravissima. In Italia migliaia di piccole e medie imprese chiudono o vendono a ritmo accelerato. I privati convertono i propri beni in lingotti d'oro, gli assets vengono ritirati dalle banche e trasferiti all'estero: il clima è da «si salvi chi può».
Il problema dell'euro è sempre stato politico, non finanziario: non ci può essere moneta unica senza politica economica comune e questa non è possibile se non è gestita da un soggetto legittimo, cioè eletto a suffragio universale europeo. Ma ora non c'è tempo materiale per avviare la costruzione di un'entità politica «Euro» e - francamente - i popoli non ne hanno nemmeno la volontà, dopo il modo in cui l'euro li ha trattati e continua a punirli.
[...]
articolo originale

Nessun commento: