lunedì 2 maggio 2011

Un punto di vista diverso su papa Giovanni Paolo II

Prefazione

Wojtyla fu davvero un santo?
di Paolo Flores d'Arcais

Abbandonò al suo destino il vescovo Romero, abbracciò il carnefice Pinochet e difese il potere opulento dei Legionari di Cristo. Ma soprattutto il suo papato fu una crociata ininterrotta contro la modernità e l'Illuminismo. Karol Wojtyla è davvero un santo? Ha davvero praticato le quattro virtù cardinali e le tre teologali fino all'eroismo? Lo sa solo Iddio, per chi in Dio crede. Storicamente e politicamente, il Papa polacco è stato certamente un grande oscurantista. Valga il vero. Il suo pontificato si svolge all'insegna di una ininterrotta crociata contro la modernità nata dall'illuminismo, di una coerentissima "guerra santa" contro la pretesa dell'uomo all'autonomia, alla quale fa risalire la colpa dei due totalitarismi dello scorso secolo. Hume e Voltaire responsabili dei lager e del gulag, insomma! Non è una battuta polemica, lo confermano tutte le sue encicliche e omelie, dove il disincanto dell'uomo moderno che vuole darsi da sé la legge (autos nomos, appunto), senza il quale non avremmo mai avuto le democrazie liberali, viene anatemizzato come "strutture di peccato". La democrazia, nella quale la sovranità dei cittadini deve ovviamente prescindere dalla "sovranità di Dio" è per Wojtyla colpevole di aver legalizzato l'aborto, che per il Papa polacco costituisce il vero e proprio "genocidio dei nostri giorni". Questa l'espressione, ripetuta ossessivamente e solennemente. La donna e il medico che interrompono una gravidanza, equiparati moralmente alle SS che gettano un bambino ebreo nel forno crematorio, se le parole hanno un senso. E lo hanno, inequivocabile, visto che vengono pronunciate - una volta di più - a delegittimazione del primo parlamento polacco liberamente eletto, proprio dopo che Wojtyla ha visitato il campo di Auschwitz. Giovanni Paolo II "Papa dei diritti umani" è perciò una favola. Karol Wojtyla lasciò solo, ostentatamente, il vescovo di San Salvador Oscar Arnulfo Romero (avrebbero mai osato ucciderlo, se lo avesse elevato alla porpora, come chiedevano in tanti nella Chiesa?), si affacciò benedicente da uno stesso balcone con il generale Augusto José Ramón Pinochet Ugarte, legittimando quel regime di sangue e d'infamia, perseguitò instancabilmente sacerdoti e vescovi della "teologia della liberazione", schierati con gli ultimi come ordina la "buona novella" di Gesù (aprire a caso uno dei vangeli, per credere), e altrettanto instancabilmente difese il "padre padrone" dei "Legionari di Cristo", Marcial Maciel Degollado, malgrado un'opulenza di accuse sempre più circostanziate avessero convinto perfino un fedelissimo di Wojtyla, come il cardinale Ratzinger, degli "autentici crimini" commessi da Maciel. Quanto alla pedofilia, volle che il cardinale Castrillón Hoyos trasmettesse una solidarietà calorosissima al vescovo di Bayeux-Lisieux mons. Pierre Pican, condannato dalla giustizia francese per essersi rifiutato di testimoniare sulle attività di un prete della sua diocesi. E' verissimo però che ha contribuito al crollo dei comunismi: non per volontà di libertà, però, ma come affetto collaterale della sua oscurantista guerra alle "strutture del peccato". Santo, Wojtyla? Non è cosa su cui possa esprimersi un ateo. Ma due grandi personalità cattoliche, Hans Küng e dom. Franzoni (che fu padre conciliare), hanno messo in fila un rosario di accuse degne dell'abrogato "avvocato del diavolo" (compresa l'impunità garantita a mons. Marcinkus per l'Ambrosiano, impedendo l'accertamento della verità, e con ciò venendo meno alle virtù della fortezza e della prudenza). Mentre per due preti dalle virtù certamente eroiche, come monsignor Romero e padre David Maria Turoldo, gli altari possono aspettare.


Un punto di vista diverso su papa Giovanni Paolo II
Contenuti estratti e rielaborati da paperblog.com

Entrate nella cattedrale di San Salvador e guardate alla destra della navata centrale. Quel sacerdote sorridente rappresentato in quella gigantesca pittura non è monsignor Oscar Arnulfo Romero, il vescovo assassinato nel 1980 dagli squadroni della morte del governo di ultradestra. Quel prete, lo sguardo mansueto del quale è impossibile evitare di incrociare, è San José María Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, l’organizzazione che riunisce cattolici eccellenti e della quale Karol Wojtyla fu sdoganatore e sicuro alleato politico. Tanto alleato da santificare il polemico sacerdote basco senza considerare la vicinanza di questo alla dittatura franchista spagnola, l’antisemitismo, lo scandaloso acquisto di un titolo nobiliare, le denunce sulla manipolazione dello stesso processo di santità. Quello che importava era offrire un santo alla classe dirigente cattolica, fieramente anticomunista, che interpretasse un cattolicesimo nel quale denaro e potere fossero celebrati come un cammino verso la salvezza. Per trovare segni che ricordino monsignor Romero, il viaggiatore che visito' El Salvador deve cercare una cappellina, spesso chiusa, collocata all’esterno di una cattedrale rigorosamente controllata dall’Opus. Pochi mesi prima del suo martirio, il 7 maggio del 1979, il vescovo centroamericano aveva presentato a Giovanni Paolo II un dossier sulle violazioni dei diritti umani nel suo paese. Tra i documenti vi erano le foto del corpo di un giovane sacerdote torturato e assassinato dai militari. Dall’udienza Romero era uscito dicendosi “costernato” per il gelo col quale la sua denuncia era stata accolta dal papa: “deve avere relazioni migliori col suo governo” furono le categoriche parole del pontefice. Con quelle parole il cammino verso la santità aveva smesso di essere un mistero per rispondere a una logica politica terrena che in America latina per Karol Wojtyla significò l’alleanza con Augusto Pinochet e con i carnefici del Piano Condor. Così si spiega perché, dopo 31 anni, il processo di beatificazione di Romero si sia perduto negli archivi della Congregazione per le cause dei santi, mentre la causa del fondatore dell’Opus seguiva un cammino accelerato. Molteplici testimoni raccontano che lo stesso Wojtyla spiegò pubblicamente che la beatificazione di un martire come Romero non era opportuna perché “sarebbe stata strumentalizzata dalla sinistra”.

Giovanni Paolo II, in uno dei suoi numerosi viaggi all'estero, non perdeva occasione di stringere la mano al dittatore Pinochet, cui più tardi avrebbe ancora fatto gli auguri in occasione delle nozze d'oro del dittatore. Come si legge nell'articolo Pinochet e Woytila, il macellaio ed il suo fan:
A vent'anni dal golpe la legittimazione più calorosa arrivò al dittatore Augusto Pinochet dalle stanze del Vaticano. 18 febbraio 1993: la privatissima ricorrenza delle sue nozze d'oro viene allietata da due lettere autografe in spagnolo che esprimono amicizia e stima e portano in calce le firme di papa Wojtyla e del segretario di Stato Angelo Sodano. «Al generale Augusto Pinochet Ugarte e alla sua distinta sposa, Signora Lucia Hiriarde Pinochet, in occasione delle loro nozze d'oro matrimoniali e come pegno di abbondanti grazie divine», scrive senza imbarazzo il Sommo Pontefice, «con grande piacere impartisco, così come ai loro figli e nipoti, una benedizione apostolica speciale. Giovanni Paolo II.» Ancor più caloroso e prodigo di apprezzamenti è il messaggio di Sodano, che era stato nunzio apostolico in Cile dal '77 all'88, e che nell'87 aveva perorato e organizzato la visita del papa a Santiago, trascurando le accese proteste dei circoli cattolici impegnati nella difesa dei diritti umani. Il cardinale scrive di aver ricevuto dal pontefice «il compito di far pervenire a Sua Eccellenza e alla sua distinta sposa l'autografo pontificio qui accluso, come espressione di particolare benevolenza». Aggiunge: «Sua Santità conserva il commosso ricordo del suo incontro con i membri della sua famiglia in occasione della sua straordinaria visita pastorale in Cile». E conclude, riaffermando al signor Generale, «l'espressione della mia più alta e distinta considerazione».

Un milione di morti. Sono le vittime del genocidio rwandese nel quale la Chiesa di Roma ha gravi responsabilità, avendo fomentato per anni l'odio razziale fra Hutu e Tutsi benché il papa fosse stato più volte avvertito del pericolo che incombeva sulla regione. Molti preti hanno partecipato attivamente al massacro dei Tutsi, di solito attirando i fedeli nelle chiese perché le squadre della morte, gli Interhamwe, potessero bruciarli vivi, mitragliarli o affettarli con i machete. Credete che il Vaticano si sia dato da fare per collaborare con la giustizia? Credete che abbia denunciato i preti assassini? Nemmeno per sogno. Come nel caso dei preti pedofili, la Chiesa reagisce con un’omertà di tipo mafioso manifestando una totale indifferenza per la giustizia, un’immoralità profonda, un egoismo supremo, un totale disprezzo per le vittime.
Nel luglio del 1994, quando le truppe del Front Patriotique Rwandais entrano a Kigali mettendo fine ai massacri, la chiesa cattolica comincia a organizzare una vasta rete per permettere ai suoi membri assassini di sfuggire alla giustizia internazionale. La questione diventerà pubblica solamente nell’aprile del 2001, quando l’Europa stupefatta vede in tutti i telegiornali i volti di due suore rwandesi accusate di partecipazione al genocidio in un tribunale belga. Nell’aprile del 1994 suor Gertrude (Consolata Mukangango) e suor Kisito (Julienne Mukabutera) rispettivamente Madre Superiora e Intendente, hanno consegnato alle milizie Interhamwe, le squadre della morte, da 5000 a 7000 Tutsi che si erano rifugiati nel loro convento di Suvu e incendiato personalmente con bidoni di benzina un hangar contenente 500 rifugiati. Credete che la chiesa le abbia consegnate alla giustizia? Nemmeno per sogno, le ospita in segreto in un convento belga. Le due religiose sono sfuggite alla giustizia grazie a un circuito organizzato dai conventi e dai missionari. Hanno approfittato dei camion dell’operazione militare francese Turquoise nel luglio 1994, lanciata per proteggere gli assassini e coprire le responsabilità della Francia, per rifugiarsi in Zaire dove sono state accolte da religiose spagnole. In seguito sono state imbarcate su un aereo che, dopo una tappa in Francia, le ha condotte in Belgio. E il pubblico scopre che il caso delle due suore non è isolato. Grazie all’aiuto della chiesa cattolica, molti religiosi accusati di genocido se la spassano in Europa invece di trovarsi sul banco degli imputati nel tribunale internazionale di Arusha, in Tanzania, e in quello rwandese di Kigali, dove vengono processati gli assassini. Per esempio Emmanuel Rukundo, che ha denunciato centinaia di Tutsi all'esercito durante i massacri, fornendo liste di nomi e aiutando i soldati nelle ricerche, officia la messa nell’idillica parrocchia di Granges-Canal a Ginevra, in Svizzera. E Martin Kabalira, che ha collaborato ai massacri nella città di Butare, officia nella parrocchia di Saint-Béa vicino a Luchon, in Francia.
Un altro assassino se la spassa a Firenze, nella parrocchia di San Martino. Athanase Seromba è accusato di avere attirato 2000 Tutsi nella chiesa cattolica di Nyange, in Rwanda, e poi chiamato le squadre della morte perché li schiacciassero con i bulldozer. Per due anni gli va tutto benissimo, ma 1 milione di morti pesa sulla coscienza dell’umanità. Così African Rights, un’organizzazione simile a quelle israeliane che davano la caccia ai criminali nazisti, arriva nel quartiere di Montughi a Firenze, dove si trova la parrocchia San Martino. Scatta foto, prende informazioni e riconosce Athanase Seromba. La notizia è una bomba, però in Italia non esplode perché il Vaticano e il governo cercano di soffocarla. Purtroppo per loro il quotidiano britannico Sunday Times pubblica un articolo sul prete assassino e il caso fa il giro del mondo. Nel 2001 il procuratore del Tribunale Internazionale, la svizzera Carla del Ponte cerca di arrestare Seromba, ma l’Italia rifiuta la sua cooperazione dicendo che la legge non la permette. Non contento di fare leggi per proteggere i ladri, come sostiene l’opposizione, il governo berlusconiano rifiuta di consegnare un assassino alla giustizia. Sotto la pressione internazionale, il Vaticano capisce che per salvarsi deve mollarlo e negozia la sua consegna alle autorità rwandesi purché venga trattato bene e sistemato in una cella singola. Seromba sarà processato, giudicato colpevole e condannato a 15 anni.

Se credete che Ratzinger abbia il monopolio della protezione dei pedofili, vi sbagliate. Anche il suo defunto predecessore Karol Wojtyla si distingueva in questa onorevole specialità. Ecco qui la storia, almeno quella conosciuta, della sua strenua battaglia in favore dei pedofili.
Siamo nel novembre del 2004 e papa Wojtyla benedice il prete messicano Marcial Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo, posandogli paternamente la mano sulla testa. Un quadretto edificante: due anziani prelati ormai al tramonto della vita, uniti nella fede in Cristo e promessi a un roseo futuro in paradiso. Soltanto un piccolo particolare stona in questo commovente teatrino ecumenico: Marcial Maciel è uno dei più grandi pedofili mai esistiti sulla faccia della terra. Il fondatore dei Legionari di Cristo è un criminale incallito, visto che ben 83 seminaristi lo hanno denunciato per violenze. Ovviamente la cifra totale delle vittime va come minimo triplicata, visto che nei casi di pedofilia nella chiesa le violenze denunciate sono solamente la punta dell’iceberg. Per convincerli ad alzare la sottanina, Marcial raccontava loro che non facevano peccato perché Pio XII gli aveva dato un permesso speciale. Così le sottanine si alzavano, Marcial agiva e i testimoni tenevano acqua in bocca, perché i Legionari di Cristo, la congregazione fondata dallo stesso Marciel nel 1941, sono una grossa industria con 650 preti, 2500 studenti di teologia, 30.000 membri laici attivi in tutto il mondo, decine di scuole due delle quali a Roma, 60 milioni di dollari di budget annuale e nessuno vuole rinunciare a tanto ben di Dio. Wojtyla sapeva tutto, perché a partire dal 1956 il prete veniva accusato di iniziazione dei giovani alla droga e atti pedofili. Sapeva tutto, eppure nutriva per questo sodomizzatore di marmocchi un’ammirazione sconfinata. Nell’aprile del 2005 il futuro papa Ratzinger spediva in Messico il padre Charles Scicluna, membro della Congregazione per la Dottrina della Fede, a indagare sulle prodezze del prelato messicano. Il moribondo Wojtyla non ha digerito questa inchiesta ed è riuscito a trovare il fiato per lodare “l’affetto paterno e l'esperienza del diletto amico Maciel". Che si riferisse alla sua capacità d'iniziare i giovani seminaristi ai misteri del sesso?
Che avesse un debole per i pedofili, Wojtyla lo aveva già dimostrato nel 1996, quando aveva protetto in ogni modo possibile il vescovo Groer, accusato di pedofilia e responsabile di una mostruosa scissione della chiesa austriaca con la fuga di 500.000 fedeli confluiti nel movimento “la Chiesa Siamo Noi.” Wojtyla si e' opposto con ogni mezzo alla sua rimozione. Ha impedito ogni indagine sulle sue inclinazioni pedofile e lo ha trasferito a Vienna per sostituire il vescovo Koenig, un uomo scomodo perché considerato troppo indipendente. Morto Wojtyla, Ratzinger lo ha “sollevato dalle sue funzioni” chiedendogli di “rinunciare a ogni ministero pubblico” e di vivere “una vita monastica nella preghiera e nella penitenza”. La galera è per i pedofili in calzoni, mentre quelli in sottana se la cavano con 4 avemarie e 1 padrenostro.

È così che tra gloria e fumi d’incenso si arriva ad una beatificazione ritardata il minimo indispensabile per mantenere la decenza di un processo che lo slogan “santo subito” pretendeva di saltare. A Roma un merchandising più o meno kitsch sul “beato Wojtyla” invade Via della Conciliazione. Lo stesso succede a Wadowice, nel sud della Polonia dove il papa nacque 91 anni fa e secondo punto più importante delle celebrazioni. Oltre mezzo milione di pellegrini visitano ogni anno conventi e hotel, chiese e ristoranti e il museo dedicato a Giovanni Paolo II che proprio domani inaugurerà altri mille metri di spazi espositivi. Anche in questo contesto l’immagine di Wojtyla, con un messaggio generico di pace e amore che non fa onore alla complessità e alla statura indiscutibile del personaggio, nasconde la realtà di una chiesa cattolica polacca appiattita ogni giorno di più sul partito di ultradestra, razzista, antisemita, ultranazionalista del defunto Lech Kaczynsky e del suo gemello Jaroslav. L’appiattimento sulla destra reazionaria più volgare, il Pis (Legge e Giustizia) dei gemelli Kaczynsky, come i messaggi antisemiti lanciati ogni giorno da Radio Maria sono la testimonianza della miserabile fine dell’incontro tra il cattolicesimo e il Secolo impostato su ben altri canoni dal Wojtyla di Solidarnosc. Non è un caso che la situazione polacca sia simile a quella dell’altro paese dove il wojtylismo incise più profondamente: l’Italia. Le gerarchie cattoliche non si sono mai distanziate dal governo di Silvio Berlusconi nonostante i continui scandali sessuali e di corruzione, l’alleanza con la Lega Nord e l’assoluta mancanza di carità verso i migranti. Il primo ministro continua a comprare il loro silenzio concedendo enormi vantaggi economici in termini di finanziamenti alla scuola privata o esenzioni fiscali e impedendo qualunque dibattito su temi etici come la fecondazione assistita, i matrimoni omosessuali, le cure palliative. Ciò anche se vari scienziati, tra i quali l’anestesista Lina Pavanelli, abbiano studiato come lo stesso Wojtyla abbia deliberatamente interrotto le sue cure, accelerando la morte, cosa che la chiesa considera peccato mortale per i comuni fedeli. È il Wojtyla conservatore, sempre irriducibilmente contro qualunque tipo di contraccezione e contro l’uso del preservativo nella lotta all’AIDS. È il Wojtyla che hanno preferito non ricordare domenica a Roma.

4 commenti:

SCIUSCIA ha detto...

http://satirasciusciesca.blogspot.com/2010/03/santo-subito-beato-tra-tre-mesi-o-super.html?m=1

bob ha detto...

il mio post e' piu' figo

SCIUSCIA ha detto...

Ma il mio c'ha più cattiveria di dentro.

bob ha detto...

questo non lo metto in dubbio