martedì 5 agosto 2008

Lift - Caverns of your brain (1977)

Gli Stati Uniti paiono non essere stati contagiati minimamente dal virus progressivo, infatti solo negli ultimi tempi sono nate band famose americane, basta citare i Dream Theater, ma negli anni 70 sembravano ben lontani dalle tendenze europee, preferivano piuttosto dedicarsi all'hard rock o al blues, o al limite ad un certo pomp prog, sto parlando dei Kansas, degli Styx (di cui consiglio The serpent is rising) e dei Journey (di cui consiglio l'album omonimo). Tuttavia esiste un ristretto manipolo di gruppi che hanno tentato di rifarsi al prog europeo, soprattutto inglese, contaminandoli con spunti psichedelici tipicamente americani, anzi californiani, e di proporre un prog made in USA. Mi sembra doveroso citare un gruppo che è stato pioniere in tal senso, cioè gli Iron Butterfly, autori di un album rimasto negli annali del rock, ovvero In a gadda da vida contenente l'omonima famosissima canzone (c'è anche nei Simpson quando Bart sostituisce gli spartiti della canzone da cantare in chiesa). I risultati non sono stati dei migliori ma alcune band hanno saputo elaborare proposte discrete, come i Pavlov's dog di cui avrò modo di parlare, o i Lift di New Orleans, autori di Caverns of your brain. Questo disco è stato realizzato nel 1974 ma per motivi economici non è stato pubblicato prima del 1977, anche se alcune copie illegali circolavano già prima. Come detto in precedenza, i Lift ricalcano i modelli europei ma li reinterpretano in maniera più blues, più aggressiva e passionale, mentre ai testi solitamente fantastici preferiscono tematiche introspettive. L'album si articola in quattro lunghe canzoni in cui i fraseggi fra chitarra e tastiere rappresentano la principale attrattiva del gruppo, mentre una certa rigidità nella composizione, quasi a segnalare una mancanza di fantasia, è la pecca principale. Infatti le canzoni presentano belle aperture e fughe psichedeliche, oltre a un vago richiamo ai Genesis di The lamb..., ma la ripetitività di cui ogni tanto soffrono non permette a questo album di essere annoverato fra i capolavori. Forse una sforbiciata qua e là si poteva dare, comunque nel complesso è un album gradevole, sicuramente ne consiglio l'ascolto. Il gruppo è composto da Chip Gremillion alle tastiere, Cody Kelleher al basso, Chip Grevenberg a batteria e percussioni, Richard Huxen alla chitarra e Courtenay Hilton-Green a voce e flauto. La traccia di apertura è Simplicity, condotta dalle tastiere che disegnano trame fantasiose e affascinanti, passaggi tastieristici di non facile esecuzione rendono il brano un crescendo progressivo di indubbio gusto; il secondo brano è Caverns, che comincia con distorsioni psichedeliche che rimandano un po' ai Pink Floyd o agli Iron Butterfly, e sfocia poi in un bel pezzo melodico di stampo sinfonico che disegna atmosfere oniriche con innesti di flauto e chitarra blueseggiante; il terzo pezzo sintetizza al meglio lo stile del gruppo, ovvero mirabolanti intrecci tastiere-chitarra trascinano l'ascoltatore in un mondo acido e schizofrenico, mentre finalmente la sezione ritmica si fa sentire con convinzione, rendendo il brano vivo e pulsante e rimandando al sound del sud degli Stati Uniti; la canzone finale Trippin' over the rainbow, suite di 20 minuti, si apre come uno dei migliori pezzi dei Kansas, cioè magniloquente e altisonante, per poi virare in sinfonia trascinata dai soliti duetti tastiere-chitarra che ancora una volta disegnano passaggi strumentali ardui e affascinanti. Un album da riscoprire, sicuramente.

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